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"Quando il calcio ci piaceva più delle ragazze" di Marco Innocenti

Marco Innocenti nel libro “Quando il calcio ci piaceva più delle ragazze" (Mursia, 245 p.) - titolo molto bello per la sua quotidianità, senza strombazzamenti poetici né virate socio-storiche - scrive del calcio degli anni ’60 con riferimenti alla società, al costume, al quotidiano di quegli anni. Molti si diranno: “l’ennesimo libro sugli irripetibili ’60?” In parte sì, in parte no. Se infatti il libro summa del calcio degli anni ’60 e del mondo che lo ha visto scorrere via è “Il più mancino dei tiri” di Edmondo Berselli, il libro di Innocenti è una sorta di controcanto normalizzato del testo e del progetto di scrittura di Berselli.

Mentre Berselli è il discolo della memoria rubata a se stesso
, l’artista che in tre pennellate riempie la tela della nostra lettura di sensazioni, Innocenti è il cartografo dei ricordi, l’artista divisionista che accosta miriadi di tocchi leggeri per un quadro che dà piacere se goduto nel suo insieme. Berselli ha un progetto di scrittura sperimentale, ovvero quello di viaggiare sulla frontiera pericolosa e labile della memoria personale, sulle corde delle emozioni giovanili che diventano, filtrate dal Berselli di oggi, ricostruzioni di una storia per sé e poi per gli altri. In questo modo la lettura si muove su flash che possono non dire nulla oppure aprire un mondo di ricordi.


Il tentativo è costruire una catena di memorie tra sé e il lettore che può condurre verso lidi semiotici lontani tra di loro e vasti. Dall’altra parte Innocenti non sperimenta le possibilità semantiche della memoria soggettiva ma costruisce un corretto puzzle di fatti e biografie che il lettore recepisce come percorsi a lui noti e di cui ha piacere soprattutto nel momento del punto e a capo. Mette nel suo libro tutte le storie degli anni ’60 come la Storia e non la memoria narra, ma allo stesso tempo non è “il solito libro” della meglio gioventù (ci sono comunque le riflessioni ormai incancrenite del: “Noi avevamo un sogno, quello di cambiare il mondo”. E chi lo diceva, adesso vuole che si ritorni agli anni ’50), bensì un vero esercizio di approfondimento cronachistico sulle vite di quegli attori straordinari che hanno vissuto quella stagione (straordinari non perché hanno vissuto proprio quella stagione, ma perché chi è straordinario è straordinario sempre. Per dire, se Herrera è stato il personaggio degli anni ’60, anche negli anni ’80 restava tale e della sua parabola anche quegli anni contano).

Degni di nota soprattutto i pezzi sulle squadre milanesi e sulla Roma di “Raggio di luna” Selmosson”.
Dicono altro rispetto ad una semplice ricerca su Wikipedia i pezzi su Carosio, Concetto Lo Bello e Brera, cade un po’ nel già sentito il pezzo su Scopigno, mentre poco o nulla aggiungono al conosciuto e ribadito i pezzi su Best, Eusebio, il Real Madrid e Pelè. L’unica cosa che l’autore poteva davvero risparmiarci era l’ennesima parafrasi di Italia-Germania 4-3 (con tanto di tabellino indigeribile).

Al di là di questo è un ottimo libro, dalla scrittura perfetta nel suo paratattismo conciso e coinvolgente. Degli uomini di cui si parla si tira fuori il senso di quello che sono stati per i tifosi di calcio e per la gente che leggeva i giornali o ne sentiva parlare in quegli anni, senza voler scoprire arguti retroscena senza sapore né santificarli perché profeti di chissà cosa. Solo racconti di vita e storie di calcio, il meglio che si può chiedere.

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