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Primo disco solista di Tigran, ’A fable’(Verve)

Tigran, piano, voce.Tra i molti giovani musicisti che si affacciano alla ribalta, Tigran Hamasyan, classe 1987, ascoltato dal vivo quest’estate immersi nel parco di Villa Farsetti a S.Maria di Sala (VE), è forse colui che ci ha maggiormente convinto.

E impressionante per una sicurezza ed un bagaglio di idee che spesso vengono meno perfino in un musicista ed autore maturo e affermato. Nel disco, il quarto, ma il primo in veste di solista, su tredici tracce, ben nove appartengono alla sua scrittura.

Il legame con la terra d’origine, l’Armenia, dalla quale a 16 anni partì assieme alla famiglia per gli Stati Uniti, continua nell’interesse per i canti popolari e religiosi della tradizione e per Georges Gurdjieff (ca.1866-1949), una delle maggiori figure spirituali del secolo scorso, nato come Tigran a Gyumri.

Di lui nel disco esegue con vigore ‘The Spinners’, un tema semplice, serio e delicato che si sviluppa con maestosità in un crescendo sonoro dinamico. Nel suo pianismo scorgiamo echi romantici di fine XIX^ e inizio XX^ secolo - pensiamo ai francesi Erik Satie (1866-1935) e Claude Debussy (1862-1918) - che si manifestano nei due brevi schizzi ‘Rain Shadow’ ed ‘Illusion’. Il legame con la terra natale continua in ‘Kakavik’, ‘la piccola pernice’, un canto popolare tra i molti collezionati da Komitas Vardapet (1869-1935), il prete e musicologo che valorizzò la musica liturgica della chiesa armena, trovandone le radici nel folklore e che è stato riscoperto dall’Hilliard Ensemble in ‘Officium Novum’(ECM).



Dolcissima, simile ad una ipnotica ninna nanna è ‘Longing’. Qui Tigran mette in musica e canta alcune liriche del poeta Hovhannes Tumanyan. Il pianista ci ricorda la vocalità di Pedro Aznar, contrabbassista per un periodo nel ‘Pat Metheny Group’, in ‘Carnaval’ e in ‘The legend of the moon’, che dopo un lento ed oscuro inizio cresce in vigore e volume per concludersi in un dissovilmento ad libitum alla maniera dell’esordio.

Tigran rivisita con rispetto uno standard plurinterpretato come ‘Someday my prince will come’, dandogli nuova linfa. In ‘A memory that becomes a dream’ il pensiero va ad un qualcosa così lontano nel tempo, che non si è sicuri se sia davvero accaduto. La scaletta si conclude con un inno religioso medievale armeno, ‘Mother , where are you?’, in cui sentiamo l’amore e, chissà, la nostalgia per una terra che ha dovuto soffrire per un tempo troppo lungo. Un bel disco, da assaporare ascolto dopo ascolto e di cui scopriamo in ogni traccia delle cose nuove.

Il risultato è che non ci si stanca di inserirlo nel lettore, poiché è in grado di diffondere una freschezza che sembra non dover finire. Last but not least: per chi fosse interessato ad ascoltare qualcosa di più di Gurdjieff, segnaliamo una recente uscita ECM : The Gurdjieff folk instruments ensemble, ‘Music of Georges Gurdjieff’.

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