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Presa Diretta: il made in Italy che rischia di non esserci più

La settimana scorsa Presa diretta si è occupata delle sofisticazioni alimentari spiegando come molte aziende usino il marchio made in Italy solo come specchietto per le allodole.
 
Di olio italiano, in molte bottiglie, non c'è nemmeno l'ombra. Se va bene è spagnolo, con grave danno ai nostri agricoltori e quelli spagnoli, schiacciati dalla grande distribuzione dai grandi marchi.
 
Ieri sera Riccardo Iacona e i suoi giornalisti hanno parlato del tessile: altro settore in crisi, altro settore di punta di quello che dovrebbe essere il made in Italy da difendere a tutti costi.
Ma la realtà dice che i grossi nomi sono stati comprati da aziende e gruppi stranieri: l'ultimo in ordine di tempo, è stato il marchio Krizia comprato dai cinesi
 
Il gruppo italiano di moda Krizia è stato venduto ai cinesi della Shenzen Marisfrolg Fashion, azienda attiva nel mercato asiatico del pret-a-porter di fascia alta. La formalizzazione dell'accordo è attesa per aprile. Lo rende noto, in un comunicato apparso sul suo sito web, la fondatrice del marchio, Mariuccia Mandelli: "La nuova proprietà porterà Krizia a raggiungere nuovi successi nel mondo".
 
Vedremo quanta parte della produzione rimarrà in Italia. Perché, nonostante sia il secondo settore per numero di occupati, il tessile è in profonda crisi anche per colpa dell'aggressiva concorrenza dei cinesi.
Come nel distretto di Prato, dove hanno colonizzato un intero distretto, tagliando fuori i piccoli imprenditori italiani. Concorrenza che nasce dallo sfruttamento della manodopera e dal non rispetto delle norme di sicurezza. A Prato, nel dicembre scorso, un incendio in un'azienda dormitorio ha ucciso sette operai. Cosa è cambiato dalle prime denunce fatte, anche da altre trasmissioni di inchiesta come Report (anche sul distretto dei divano a Forlì)?
 
La crisi delle imprese italiane porta come effetto la delocalizzazione del lavoro in paesi dove controlli e stipendi sono conciliabili col nuovo ordine industriale. Quello per cui diritti, tutele, stipendi dignitosi sono cose che non possiamo più permetterci.
Anche la svolta buona di Renzi, in fondo, segue una direzione simile, liberalizzando i contratti a termine per i primi tre anni, come anche i contratti di apprendistato.
 
Ma c'è qualcosa che, nella delocalizzazione selvaggia, va oltre le leggi del profitto ad ogni costo: Liza Boschin è andata in Bangladesh a girare un reportage sconvolgente sulle condizioni di lavoro locali. In Bangladesh i grandi marchi vanno a produrre i loro capi sfruttando il costo bassissimo della manodopera.
Nel luglio del 2013 il palazzo Rana Plaza è crollato su se stesso uccidendo 1000 operai che qui lavoravano: "Sotto le macerie del Rana Plaza sono ancora sepolti 200 corpi... e la coscienza sporca dell'occidente", raccontera Iacona a commento delle drammatiche immagini.
 

Si chiama libero mercato e logica del profitto, ma è semplicemente una nuova forma di schiavismo, fatto dal ricco occidente che si compra la benevolenza dei governanti locali. Quel palazzo era già dichiarato inagibile, infatti. Ma chi lavorava lì non poteva protestare, né per le condizioni di lavoro, né per il basso salario. Niente sindacati. Niente ispettori del lavoro.
 
 
Al Rana Plaza, venivano prodotti anche capi di Benetton: “Dopo la smentita ufficiale, l'amministratore delegato ammette: nell'edificio crollato una ditta locale aveva prodotto direttamente per l'azienda fino a un mese fa, e continuava a lavorare in subappalto. Decisive le foto di indumenti firmati tra le macerie”.
 
 
Mentre politici e grossi marchi continuano a riempirsi la bocca con le parole “made in Italy”, questo succede nel nostro paese. Che rischia di diventare un deserto di fabbriche chiuse. A meno di non voler fare la concorrenza a posti come il Rana Plaza. Un paese senza futuro, o col futuro precario.

Qui torvate l'intera puntata: Made in Italy

Questo articolo è stato pubblicato qui

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