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Per giustizia o … per vendetta? La dittatura argentina nella narrativa italiana: il punto di vista di Perissinotto

“L’unica maniera per evitare che la storia si ripeta è facendo giustizia (chiudere i conti con il passato). La giustizia non è vendetta. È il sano ossigeno che il corpo sociale richiede per non tornare a inciampare sugli stessi sassi, a cadere nelle stesse buche e a commettere le stesse atrocità”.

Edoardo Galeano rispondeva così in un’intervista sulla memoria dei popoli colpiti dalle dittature. I temi in questione sono la verità, la giustizia e il perdono, quest’ultimo strumento troppo spesso abusato da governanti sbrigativi per ottenere la tanto agognata riconciliazione nazionale. La posizione di Galeano ricorda l’invito che le Madres de plaza de mayo hanno rivolto per oltre quarant’anni all’intera collettività argentina finalizzato a intraprendere un percorso di verità e giustizia con determinazione e coraggio ma senza vendetta. Eppure, proprio di vendetta parla un coraggioso romanzo di qualche anno fa di Alessandro Perissinotto (Rizzoli 2009), per raccontare gli anni bui dell’ultima dittatura civico-militare argentina, che vale la pena riprendere. L’opera sviluppa la tesi provocatoria che la vendetta è concepibile, parallelamente all'atto di accusa contro alcuni settori della Chiesa cattolica in Argentina che, alla fine degli anni ‘70, in piena Guerra Fredda, si schierarono a favore dei Generali golpisti.

Efrem Parodi, il protagonista del romanzo, è un inquieto professore di Storia contemporanea in fuga dalla società italiana, che trova cattedra e passione in una piccola città nel nord-ovest dell’Argentina, dove incontra Alicia. La sua brillante alunna nasconde una ferita profonda per la quale si lascerà trascinare in un gorgo di orrori e ferocia. Nella famiglia della ragazza, il dramma dei desaparecidos scatenato dalla dittatura di Videla è irrisolto. Il thriller si dipana tra scavo psicologico e verità storiche. Per tale motivo, il romanzo, può essere considerato un giallo dalle implicazioni legali, ma è anche un'opera psicologica sull'amore fatale, oltre che una storia di denuncia politica e morale spinto su una costante tensione erotica. Come gran parte delle pellicole argentine, il romanzo è diretto e non offre nessun pietismo o nessun moralismo a fare da scudo alle debolezze umane. Nessun alibi salva dalla rappresentazione della parte oscura dell’animo umano (come per es. ne El secreto de sus ojos, di Campanella). Così l’eros tra i due protagonisti principali si affaccia in fantasie quasi incestuose; così l’odio diventa pensabile e non più censurabile. Così l'umanità viene ritratta senza ipocrisie.

L’ossessione della ricerca del colpevole domina ogni passo dei protagonisti e la loro relazione, evocando la stessa sete di giustizia che spingeva Simon Wiesenthal, il cacciatore dei nazisti, a seguire le tracce dei criminali delle SS tedeschi in latitanza, proprio in Argentina per lo più, per smascherarli e assicurarli alla Giustizia. Nel suo libro Il Girasole - I limiti del perdono racconta che nel giugno del ‘42 a Leopoli un giovane SS che stava per morire confessa a lui i suoi delitti. Voleva essere perdonato da un ebreo e morire in pace. Wisenthal si è tormentato per anni sulla questione del perdono, che lui non ha concesso, rivolgendo la domanda a esperti di ogni disciplina e raccogliendo le diverse posizioni lasciando al lettore l’interpretazione e una domanda che resta angosciosamente aperta.

Perissinotto descrive una ricerca fredda e maniacale che porterà i protagonisti prima in Italia, poi fino a Ushuaia, nella Terra del Fuoco, alla fin del mundo, alla ricerca di un certo Don Tino, un enigmatico sacerdote, definito “l’angelo dei prigionieri politici”, figura chiave della violenza subita nei centri di detenzione (analogamente a Luis Pontini, il carnefice impenitente descritto nel romanzo Nora Lopez – detenuta N84 di Nicola Viceconti). Perissinotto, nell’appendice al testo, cita il salmo 58 della Bibbia, che recita “Il giusto godrà nel vedere la vendetta, laverà i piedi nel sangue dell’empio, e la gente dirà: c’è un premio per il giusto” e sottolinea che l’elaborazione di una tale violenza non può prescindere dal riconoscimento dei ruoli del carnefice e della vittima. Il perdono nasce intimamente contestualmente al pentimento del proprio aguzzino o all’identificazione inequivocabile dello stesso.

Il conflitto tra vendetta e perdono, così come il concetto di giustizia, qui finisce per ricordarci la straziante preghiera della moglie di uno degli agenti della scorta morti con Falcone, Rosaria: “(…), a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato (lo Stato…), chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia. Adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia (perché ci sono qua dentro e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono (io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio), se avete il coraggio di cambiare (ma loro non vogliono cambiare loro, loro non cambiano), di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete. Tornate a essere cristiani. (…)”.

Il libro va sicuramente letto e non solo per la scorrevole e avvincente lettura, ma perché impone al lettore la necessità di riflettere su un inquietante interrogativo: perdonare o vendicarsi? Un dilemma che potrebbe non sussistere con uno Stato saldo nelle proprie istituzioni preposte a garantire la giustizia, che costituisce il bilanciamento delle colpe e delle responsabilità e il pilastro di una vera riconciliazione e pace di un popolo.


Articolo di Patrizia Gradito e Nicola Viceconti nell’ambito del progetto letterario Novelas por la identidad centrato sui temi della memoria e dell’identità individuale e collettiva nelle sue diverse forme.

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