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Pensioni con metodo (de)contributivo, la decrescita infelice

Lo scoso 22 agosto su Repubblica un articolo di Valentina Conte spiega in dettaglio la proposta per rendere permanenti, dal 2016, gli sgravi contributivi per assunzioni col nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele cosiddette crescenti. Il piano è stato elaborato dall’economista Tommaso Nannicini ed è quanto ci si attenderebbe nell’Era del Fichi Secchi con cui tentare di andare a nozze, cioè ridurre strutturalmente il costo del lavoro. E poiché l’economia è la scienza delle risorse scarse, cioè dei trade off, l’esito deriva strettamente dalle premesse.

Il taglio contributivo sarebbe di sei punti percentuali, metà a “beneficio” del lavoratore (che beneficio non è, come vedremo tra poco) e l’altra metà per il datore di lavoro. Al lavoratore viene data la scelta se ricevere in busta paga i tre punti di taglio contributivo, ma tassati ad aliquota marginale, oppure se conferire tali somme, in esenzione d’imposta, ad un fondo pensione integrativo. Per contro, i tre punti percentuali di sgravio contributivo per il datore di lavoro non sarebbero fiscalizzati. Che significa, ciò? Significa che verrebbe a crearsi un buco contributivo per i neo-assunti, cioè pensioni future più povere.

In altri termini, il minore costo del lavoro odierno verrebbe pagato dai lavoratori con un taglio all’assegno pensionistico. In tal modo l’Inps subirebbe maggiori esborsi di cassa nel breve periodo (indicativamente per i primi anni della riforma), ma avrebbe minori passività pensionistiche da liquidare in futuro. In termini attuariali l’operazione tenderebbe al neutrale, quindi. La riduzione del costo del lavoro viene barattata con minori pensioni future.

Valgono le solite considerazioni: l’operazione è estensibile, in astratto ed in prospettiva ravvicinata, all’intera popolazione lavorativa italiana, per accelerare la riduzione del costo del lavoro? Detto altrimenti, dovremo rassegnarci a decurtare le nostre pensioni, anche se calcolate con il metodo contributivo, per spingere l’occupazione e/o mantenere quella esistente? Per chi già lavora, è utile sapere che la manovra fiscale di Renzi dell’estate 2014, quella che ha colpito non solo le “rendite finanziarie pure” (inclusi i fondi pensione per la parte non investita in titoli di stato) ma anche il Tfr lasciato in azienda, determinerà nel lungo periodo un taglio della retribuzione pensionabile stimato intorno al 7%. Il massacro previdenziale prosegue, quindi.

Possiamo ipotizzare un aumento del tasso di risparmio per compensare questo futuro grigio che ci attende? L’Italia deve lottare con le unghie e con i denti per tagliare il costo del lavoro, come noto. Ciò può avvenire, come detto alla nausea, con la riduzione del cuneo contributivo e/o con tagli alle retribuzioni tabellari. La proposta di Nannicini di fatto fa entrambe le cose: taglia i contributi e finanzia il taglio con riduzione dell’assegno pensionistico, cioè taglia il reddito di ciclo vitale delle persone, dato nelle varie fasi della vita da retribuzione e pensione. Il naturale turnover della popolazione lavorativa, destinata col trascorrere del tempo a migrare verso il nuovo contratto a tempo indeterminato, inciderà l’assegno pensionistico di un numero crescente di lavoratori, con intensità differente. In soldoni, andremmo (andremo) a tagliare anche il rendimento del metodo contributivo.

Ancora una volta: forse sarebbe stato meglio evitare di buttare nello sciacquone dieci miliardi annui per gli 80 euro. E forse sarebbe stato meglio evitare di sussidiare assunzioni che in larga parte sarebbero comunque avvenute. Ora le risorse sono sempre meno, il taglio del costo del lavoro è un’illusione ottico-propagandistica, come del resto si sapeva da subito. Questa è stata, oggettivamente, pessima policy: la “soluzione” di Nannicini si limita a prendere atto delle risorse (non) disponibili nel sistema. Ma qualcuno dovrebbe tentare di far capire a Renzi che sinora ha già fatto abbastanza errori, e tutti mediamente gravi e permanenti.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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