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Ong e Mubarak, il ricatto e il colpo di spugna

“Finanziamenti a rischio se l’Egitto continua a non permettere il rimpatrio dei nostri attivisti di organismi non governativi accusati d’ingerenza negli affari nazionali”, un gruppo di senatori del Congresso americano settimane or sono l’aveva scritto chiaro e tondo in una lettera indirizzata a Obama affinché la giunta Tantawi fosse “avvertita”. Superando il suo stile più incerto che soft il Presidente aveva girato al fedelmaresciallo quella minaccia neanche tanto velata. E’ seguita un’alternanza di bastone e carota: la Clinton ha “strattonato” il ministro degli Esteri Kamel Amr durante un tour europeo mentre la voce del Dipartimento di Stato Nuland definiva “bizzarro” il rigido comportamento della magistratura egiziana chiedendo l’immediato rientro in patria dei concittadini. 

Fra i sussuri e le grida della diplomazia i giudici del Cairo non si sono scomposti né sono apparsi intimiditi, però la vicenda si sta complicando e rischia di diventare un nodo scorsoio in un momento nient’affatto tranquillo per l’Egitto e la regione. I fatti sono noti: 43 operatori di Ong, o presunti tali, (americani, egiziani, norvegesi, tedeschi, serbi, palestinesi, giordani) sono indagati per introduzione di fondi illegali rivolti ad attività che influenzerebbero la politica interna. Alcuni di questi organismi sono collegati all’International Repubblican Institute e al National Democratic Institute dirette emanazioni del partito Repubblicano e di quello Democratico degli Stati Uniti. Uno dei fermati dalla polizia egiziana è Sam Lahood, figlio del segretario ai Trasporti Usa e presidente dell’IRI.

Il processo, dopo le prime udienze che non hanno visto la presenza degli imputati americani, è rimandato al prossimo 26 aprile. La linea difensiva finora disposta dagli avvocati delle organizzazioni dei diritti ritiene l’iniziativa giudiziaria una ritorsione della giunta militare. Il motivo sarebbe il sostegno che le Ong hanno rivolto ai gruppi giovanili democratici che sono tuttora i maggiori contestatori del regime post Mubarak. Il governo Ganzouri e Tantawi rigettano tali congetture sostenendo come il processo sia nelle mani neutrali dei giudici. Da parte sua il pm puntualizza che le questioni contestate si riferiscono a un periodo circoscritto nei mesi che vanno da marzo a dicembre 2011. Nella settimana in corso una delegazione dello Scaf si reca a Washington per discutere proprio degli aiuti a rischio: 1.3 miliardi di dollari destinati alle spese militari. E’ una questione che sta fortemente a cuore alla lobby delle stellette perché quella cifra copre stipendi più che acquisti di materiale bellico. E non finisce lì. Un’attenuazione della tensione che si è creata sulla vicenda delle Ong vedrebbe la Casa Bianca sostenere le necessità di finanziamenti al Paese nordafricano da parte del Fondo Monetario Internazionale.

C’è in ballo un prestito di 3.2 miliardi di dollari che darebbe ossigeno alla disastrata economia egiziana nel delicato trapasso che ha già visto l’avanzata politica dei partiti musulmani e vedrà come prossime scadenze l’elezione presidenziale e la riscrittura della Costituzione. Nell’attuale calda fase dei rapporti Usa-Egitto gli analisti d’Oltreoceano rafforzano le minacce di certi loro politici quando affermano, come hanno fatto nei giorni scorsi, “voi egiziani completate il percorso democratico e lasciate ripartire i nostri concittadini”. Secondo il pensiero dei think tank statunitensi la transizione deve prevedere passaggio di potere alla società civile, difesa diritti, libertà di espressione, associazione e religione per tutte le componenti.

L’altro processo in corso - dal valore altamente simbolico ma non disgiunto da probabili ingerenze delle stesse strane Ong citate - è quello al presidente Mubarak il cui verdetto è rimandato al 2 giugno. Le famiglie delle vittime che per censo si sono potute permettere un legale stanno denunciando tramite gli avvocati una “cospirazione del silenzio” volta a proteggere l’antico potere del raìs. Uno dei passi dell’imbroglio che eviterebbe la condanna a morte per Mubarak consiste nella “ripulitura” dei video delle violenze perpetrate da polizia ed esercito contro i dimostranti. Quello che doveva costituire il maggiore atto d’accusa sarebbe diventata un’arma spuntata. La preoccupazione diffusa è che si giunga a una sentenza lieve per Mubarak che può ridare visibilità e restituire capacità d’azione ai mubarakiani insinuati un po’ ovunque dalle Forze armate ai partiti di futuri governi, Fratellanza Musulmana compresa. Una tesi considerata un fantasma fantapolitico da parte di qualche osservatore mediorientale ma non esclusa da altri che ritengono come il trasformismo sia uno degli elementi reali della fase che il Paese attraversa.

Così le considerazioni tecnico-giuridiche del pm Suleiman - che bolla come false e manipolatorie le arringhe dei difensori di Mubarak e considera appropriata la pena di pena di morte perché “questo non è un caso di uccisione di una o venti persone” - si ricongiungono al quadro politico disegnato da chi evidenzia il pericolo del ‘colpo di spugna’. In una nazione finita sotto il ricatto della strategia politica ed economica del grande protettore d’un tempo che rilancia l’elenco d’un mai sopito desiderio di controllo. 

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