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Nuove condizioni di sfruttamento: il lavoro a minuto

Nuove condizioni di sfruttamento: il lavoro a minuto

Qualche giorno fa con un articoletto di spalla il vice direttore di Repubblica ci raccontava che negli USA una fetta consistente di lavoratori ha sperimentato la gioia di una nuova tipologia di contratti: quelli a minuto lavorato.
 
In pratica le aziende ti pagano per l’effettivo tempo lavorato e nel compenso non è prevista nessuna forma d’indennità in caso di malattia, né alcuna copertura assicurativa.
 
Sembra che sia la nuova frontiera della flessibilità.
 
Il buon Giannini sollecitava i politici a prendere atto di questo stato di cose (con un sottinteso che lasciava intendere che quelli si stanno attrezzando per essere più competitivi) perché è ora di riformare il welfare.
 
Nella logica dei "Giannini" riformare il welfare significa re-distribuire il poco tra i tanti nuovi poveri che ci sono e che ci saranno, prevedere quindi ammortizzatori sociali per i periodi di disoccupazione per quanti saranno interessati da queste nuove forme di precariato togliendo a pensioni, sanità e quant’altro è parte dell’assistenza.
 
Sempre nella logica del Giannini il problema non è la nuova categoria dello sfruttamento (da combattere) quanto quella di attrezzare il sistema Paese in modo tale che durante i periodi di non impiego un minimo di "salario sociale" permetta ai tanti di tirare avanti.
 
Con la logica del "questi sono i tempi, queste le condizioni e non abbiamo scelta", nel 1946, la Repubblica iniziò quella che oggi possiamo definire come la sua tratta degli schiavi per potersi pagare un po’ di carbone.
 
Per fare questo furono conclusi vari accordi bilaterali tra Italia e Belgio, come il protocollo del 23 giugno 1946 ed il protocollo dell’11 dicembre 1957. Gli immigrati italiani che si diressero in misura considerevole verso le miniere di carbone del Belgio furono circa 24.000 nel 1946, oltre 46.000 nel 1948. A parte un periodo di flessione, corrispondente agli anni ’49-’50, nel 1961 gli italiani rappresentarono il 44,2 per cento della popolazione straniera in Belgio, raggiungendo le 200.000 unità.
 
Quei lavoratori costavano la metà di un minatore belga, non si potevano rifiutare di lavorare una volta firmato il contratto di lavoro pena una detenzione di 5 anni di galera, venivano smistati a centinaia nella stazione di Milano, viaggiavano per due giorni in treni blindati senza conoscere la loro destinazione. A salari da fame garantirono quel carbone che permise all’Italia di far ripartire le sue fabbriche ed ai padroni di arricchirsi ancora di più.
 
Qui una breve cronaca:
 
“Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall’Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”.
 
Il viaggio da Milano durava in pratica due giorni. Si partiva da Milano il lunedì mattina, si viaggiava tutto il lunedì e si arrivava in Belgio nel pomeriggio del martedì. Circa mille persone viaggiavano su ogni treno. Per quasi tutti era il primo viaggio di una certa importanza, o il primo in assoluto, un viaggio decisamente poco confortevole, specialmente quando si attraversava la Svizzera. Al passaggio per la Svizzera, infatti, per un certo tempo i vagoni venivano chiusi e il treno proseguiva senza nessuna fermata fino a Basilea, per non rischiare di perdere qualche passeggero lungo il tragitto. Le ragioni erano comprensibili: considerato che la Svizzera era una meta ben più ambita del Belgio, anche perché più vicina, molti sognavano di scendere e di fermarsi lì. Dopo Basilea i vagoni potevano di nuovo essere aperti, poiché nessuno voleva scendere in Francia. Le visite mediche d’idoneità al lavoro venivano sbrigativamente svolte durante il viaggio. Per il resto, sui treni non c’era praticamente alcun tipo d’assistenza.
 
Alla stazione centrale di Bruxelles, lunghi convogli ferroviari scaricavano gli uomini, stanchi, con i loro abiti semplici e con pochi effetti personali al seguito, molti dei quali non fecero mai ritorno al proprio paese.
 
A Bruxelles cominciava lo smistamento verso le differenti miniere, tenendo conto, nei limiti del possibile, delle affinità familiari. Gli interpreti e i delegati delle miniere regolavano alcune formalità essenziali e qualche problema personale.
 
In autobus o ancora in treno, gli uomini venivano poi accompagnati nei loro “alloggi”: le famose cantines, baracche insomma, o addirittura nei famigerati hangar, gelidi d’inverno e cocenti d’estate, veri e propri campi di concentramento dove pochi anni prima erano stati sistemati i prigionieri di guerra.
 
Né animali, né stranieri...
 
La mancanza di “alloggi convenienti”, previsti dall’accordo italo-belga, impediva alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia. Trovare un alloggio in affitto era infatti quasi impossibile all’epoca. Spesso, sulle porte delle case da affittare i proprietari scrivevano a chiare lettere “ni animaux, ni étranger”: né animali, né stranieri.
 
È dunque facile immaginare che l’integrazione dei lavoratori italiani in Belgio non era, in quegli anni, facile. Anche nelle miniere, dove peraltro le condizioni di lavoro erano particolarmente dure e insalubri, i rapporti con i minatori belgi non erano facili, poiché gli italiani estraevano in media più carbone e si pensava che fossero, per conseguenza, pagati meglio. La solidarietà tra paesani rendeva il peso del lavoro e delle condizioni di vita un po’ più sopportabili. I minatori italiani provenienti dal Veneto, dalla Sicilia, dall’Abruzzo, e così via, avevano infatti tendenza a riunirsi tra di loro e a parlare in dialetto, secondo la regione e il paese di provenienza.
 
In questo contesto, un formidabile fattore d’integrazione fu l’associazionismo sindacale, e in particolare il riconoscimento del diritto di voto agli immigrati stranieri per l’elezione delle cariche sociali, che venne introdotto per la prima volta in Belgio nel novembre del 1949, anche se con molte restrizioni. Benché inizialmente il diritto di voto fosse soltanto passivo, e non consentiva quindi di essere eletti, questa prima forma di partecipazione alla vita interna all’azienda, fino a quel momento sconosciuta alla quasi totalità dei nostri lavoratori, rappresentò un formidabile esercizio di democrazia e un’occasione importante per iniziare a partecipare alla vita politica e sociale belga".
 
Con la testa a quegli avvenimenti ed a quella storia osservo che il percorso che in tanti hanno fatto non è servito a nulla.
 
Ci ripropongono condizioni che invece che farci fare passi in avanti ci riportano indietro nel tempo. La differenza sostanziale con quei periodi è nella qualità dei rapporti umani da ricostruire. Lì allora c’era qualcuno che si batteva per integrarti e farti conquistare diritti, qui da noi ora c’è solo una sporca guerra che faranno fare a noi. Sarebbe il caso di rivolgere quei metaforici fucili in altra direzione piuttosto che perpetuare e condividere condizioni di sfruttamento che ci abbruttiscono e basta ma sembra che questa cosa sia altamente "sovversiva", spregiudicata e da condannare.
 
E allora continuiamo a scannarci. Con i neri a Rosarno, contro quelli che bloccano i cancelli a Pomigliano, contro quei lavativi che vorrebbero pisciare più di una volta in 5 ore come hanno stabilito nel Carrefour qui a Torino, contro bidelli e professori. Però quando lo farete e soddisfatti tornerete a casa per aver ristabilito un po’ di ordine passate dal centro e provate a guardare in alto, da qualche parte dietro una finestra vedrete gente affabile e cordiale in compagnia di signore gaudenti che fanno festa. Non lo sapete ma quello che festeggiano come coglione dell’anno ridendo a crepapelle siete proprio voi.

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