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Non è un pianeta per atei

Il rapporto annuale di Humanists International sulla libertà di pensiero del 2022 ha rilevato discriminazioni sistematiche verso le persone non religiose, principalmente in paesi poco secolarizzati. Affronta il tema Arianna Tersigni sul numero 1/23 di Nessun Dogma

Per l’undicesimo anno consecutivo l’organizzazione non governativa Humanists International, importante osservatorio internazionale sullo stato della secolarizzazione e della tutela dei diritti umani, ha pubblicato il report sulla libertà di pensiero, che anche per quanto riguarda il 2022 offre una fotografia della condizione delle persone non affiliate ad alcuna religione nel mondo, evidenziando le violazioni della libertà di coscienza, pensiero e credo.

Come ricorda Andrew Copson, presidente dell’organizzazione, il report in questione è l’unico a livello globale a prendere in considerazione le discriminazioni e le persecuzioni nei confronti delle persone non credenti, coprendo tutti i paesi del mondo.

Nell’edizione del 2022 è stato analizzato nel particolare un campione di dieci stati: Barbados, Filippine, Francia, India, Nepal, Pakistan, Senegal, Sri Lanka, Turchia e Ungheria. Nel seguente articolo ci soffermeremo sui casi che presentano i dati più significativi.

Partiamo dall’India, una repubblica parlamentare federale che conta un miliardo e mezzo circa di abitanti; la religione più diffusa è l’induismo, che raccoglie l’80% dei cittadini indiani. La Costituzione indiana, risalente al 1949, definisce il paese una “repubblica secolare” senza alcun credo di stato e garantisce la tutela di tutti i culti allo stesso modo, sancendo formalmente la netta separazione tra stato e religione. La libertà religiosa è quindi considerata un diritto fondamentale.

La nomea di stato secolare è stata messa in crisi dall’attuale primo ministro Narendra Modi, in carica dal 2014, leader del Bharatiya Janata Party, partito conservatore nazionalista induista; molte leggi emanate da questo governo hanno promosso il nazionalismo induista e discriminato le minoranze religiose, soprattutto quella musulmana, scatenando diverse tensioni latenti da tempo.

Il nazionalismo e fondamentalismo religioso induista sembrano aver penetrato anche organi formalmente indipendenti, come le istituzioni statali, le forze armate e la giustizia. L’ultimo episodio violento di ampia portata risale al febbraio 2020: durante delle rivolte a Delhi alcuni cittadini induisti armati attaccarono la minoranza musulmana, causando 53 morti e distruggendo case e moschee.

Testimoni parlano di abusi efferati, anche nei confronti di bambini, compiuti talvolta sotto gli occhi della polizia, che spesso si limitò ad assistere agli episodi senza intervenire; una volta martoriati, molti cadaveri, quasi irriconoscibili, furono gettati nelle fogne, alcuni ritrovati dai familiari solo giorni dopo e a malapena riconoscibili.

La libertà di espressione è protetta dalla Costituzione ma, ancora una volta, quanto sancito dalla legge non trova poi concreta applicazione; infatti la classifica sulla libertà di stampa stilata nel 2018 dall’Ong Reporters Without Borders piazza l’India alla posizione 138 (su 180 paesi presi in considerazione) ed è accertato che i giornalisti trovino spesso vincoli di varia natura nello svolgere il loro lavoro, talvolta andando incontro alla morte. La censura di libri, film e siti internet e impedire l’accesso alla rete sono diventate modalità (ab)usate dalle autorità federali per limitare le proteste.

Come avviene per coloro che appartengono alle minoranze religiose (soprattutto i musulmani, che costituiscono circa il 14% della popolazione), anche i non credenti possono trovarsi in situazioni di pericolo. Narendra Nayak, presidente della Federazione delle associazioni razionaliste indiane, promotore del pensiero scientifico e razionale, nei suoi decenni di attivismo ha portato in giro per il paese dimostrazioni scientifiche che smentissero la validità dei “miracoli” religiosi e della medicina alternativa come l’omeopatia, scagliandosi anche contro le pseudoscienze.

Proprio per le sue posizioni opposte alla tradizione induista, più volte l’incolumità del divulgatore scientifico è stata messa in pericolo (per lo stesso motivo, vari esponenti razionalisti sono stati assassinati negli anni); per questo Nayak è a oggi costretto a vivere costantemente sotto scorta.

A nord-ovest della penisola indiana troviamo il Pakistan, una repubblica islamica con circa il 96% della popolazione affiliato alla religione musulmana sunnita. La Costituzione dichiara l’islam come religione di stato e impone che tutte le leggi siano conformi alla sharia. Molte norme limitano la libertà religiosa dei culti minoritari, e in particolare la minoranza induista e quella musulmana sciita sono sistematicamente soggette a persecuzioni e discriminazioni violente.

In Pakistan dal 1980 è presente la Corte federale della sharia, un organo atto a verificare l’aderenza delle leggi statali alla legislazione shariatica. La pena di morte, che avviene per impiccagione, è prevista per 27 reati, tra i quali risulta anche la blasfemia; il paese è al quinto posto al mondo per il numero di esecuzioni annuali.

La Costituzione prevede che il presidente della Repubblica e il primo ministro siano musulmani; i deputati, una volta insediati in parlamento, devono giurare di «proteggere l’identità musulmana del paese». Nelle scuole pubbliche di ogni grado gli studenti musulmani hanno l’obbligo di avvalersi dell‘insegnamento della religione islamica; gli studenti non musulmani, al posto dello studio dell’islam, sono invece chiamati a seguire la materia di etica.

Per tutti gli studenti, tuttavia, resta difficile immaginare l’accesso a un insegnamento non veicolato dalla religione: infatti i riferimenti all’islam sono presenti in pressoché tutte le materie. In Pakistan sono poi diffuse le madrasa, scuole specializzate nella memorizzazione del Corano, nell’insegnamento della lingua araba letteraria e del diritto musulmano; questo tipo di istituti sono spesso presenti nelle aree più rurali, dove mancano le scuole pubbliche, costituendo quindi per i bambini e i ragazzi l’unica possibilità di ricevere un qualche tipo di istruzione, spesso sotto l’influenza di gruppi fondamentalisti islamici.

L’affiliazione religiosa del singolo cittadino è un’informazione obbligatoriamente presente su tutti i documenti (passaporto, carta d’identità, moduli scolastici…). L’ateismo e la non affiliazione ad alcun credo religioso non sono in alcun modo riconosciuti a livello legislativo e istituzionale.

Il matrimonio civile non è riconosciuto, ma soltanto quello di tipo religioso, firmato dalle relative autorità; un fenomeno allarmante diffuso nel paese è quello delle “conversioni forzate” all’islam, di cui cadono vittime soprattutto giovani donne e bambine delle minoranze religiose per essere costrette a sposare uomini musulmani.

Il Codice penale pakistano contiene la disciplina della “legge sulla blasfemia”; sono individuati come atti blasfemi la diffamazione del Corano, gli insulti rivolti a Maometto e ad altre figure sacre, le offese dei personali sentimenti religiosi e, seppur informalmente, l’apostasia. Le pene previste per il reato di blasfemia sono molto dure, arrivando a contemplare, a seconda dei casi, anche l’ergastolo e la pena di morte.

Perché qualcuno possa essere condannato per blasfemia basta una semplice accusa; si tratta di un parametro evidentemente molto soggettivo, reso ancora più pericoloso dal fatto che non sia nemmeno richiesto di fornire una prova concreta perché il tribunale possa procedere a emanare una sentenza. Nel paese, seppur non regolamentate dalla legge, sono pratiche comuni le sparizioni forzate di giornalisti, artisti, professori universitari, avvocati e attivisti dei diritti umani.

Risulta evidente come il Pakistan si attesti tra i paesi più repressivi a livello globale nei confronti di chi decide di dichiararsi non religioso. A riprova di ciò, Fauzia Ilyas, fondatrice dell’Alleanza pakistana degli atei e degli agnostici, dopo l’apertura del processo che (ancora oggi) la vede accusata di blasfemia, è fuggita in Olanda, dove attualmente è una rifugiata.

Tra Asia ed Europa si trova infine la Turchia, uno stato che, seppur formato per il 99% da cittadini di fede musulmana, è costituzionalmente laico. Il tradizionale secolarismo, istituito nel 1923 dal fondatore e primo presidente della Repubblica turca Ataturk, è stato messo in discussione a partire dal 2014, con l’inizio della presidenza di Recep Tayyip Erdoğan, musulmano e leader del conservatore Partito della giustizia e dello sviluppo. Nel 2017, a seguito del fallimentare colpo di stato dell’anno precedente, sono stati adottati degli emendamenti costituzionali che hanno notevolmente accresciuto i poteri del presidente a discapito di quelli del parlamento, rendendo più chiara che mai la deriva autoritaria della Turchia.

Negli ultimi anni il paese è andato incontro a una crescente islamizzazione guidata dal governo, sia sul piano legislativo-istituzionale sia su quello sociale. Per esempio, l’unica confessione religiosa che beneficia di fondi statali è l’islam sunnita, che utilizza tali finanziamenti principalmente per “stipendiare” gli imam e finanziare la costruzione di moschee. Basti pensare che anche la nota ex basilica ortodossa di Santa Sofia a Istanbul è stata dichiarata moschea nel 2020, dopo che dal 1934 era stata sconsacrata e trasformata in un museo.

Nelle scuole è obbligatorio la frequenza della materia di religione, dalla quale sono esentati soltanto gli studenti cristiani ed ebrei; l’insegnamento si concentra prevalentemente sulla teoria e la pratica dell’islam sunnita. In generale, dal 2017, il curriculum scolastico a livello nazionale è stato modificato: i riferimenti all’islam sono stati inseriti in varie materie e nei libri di testo, il concetto di evoluzionismo è stato tolto dall’insegnamento ed è aumentato il numero di scuole religiose nel paese.

La Turchia, che negli ultimi anni ha registrato un evidente aumento degli episodi di violenza contro le donne, è stato il primo paese a ritirarsi, nel 2021, dalla Convenzione di Istanbul stipulata nel 2011. La presidenza turca ha giustificato tale passo indietro affermando che il documento era diventato «uno strumento di normalizzazione dell’omosessualità, incompatibile con i valori sociali e legati alla famiglia cari alla Turchia».

La libertà di espressione è formalmente protetta dalla Costituzione ma nella realtà dei fatti non è rispettata, con una costante repressione del dissenso che passa anche dalla censura di piattaforme online. La propaganda islamica sunnita è portata avanti dal Trt, l’ufficiale canale televisivo statale, e dalla maggior parte delle emittenti locali.

Gli affiliati all’Associazione turca degli atei hanno, fin dalla sua fondazione nel 2014, ricevuto minacce di morte; nel 2015 il sito internet dell’associazione fu bloccato per dei mesi. L’associazione stessa ha riferito che in Turchia il termine “ateo” è spesso usato come insulto e talvolta identificato con il satanismo o il terrorismo. Questa panoramica fa ben comprendere come sia estremamente problematico il progetto di integrazione nell’Unione europea della Turchia, la quale, ricordiamo, ha ottenuto lo status di paese candidato nel 1999, oggetto di negoziazioni dal 2005.

In generale, il report sulla libertà di pensiero del 2022 ha evidenziato chiare e sistematiche discriminazioni nei confronti delle persone non religiose, e queste discriminazioni sono state individuate prevalentemente in paesi con un basso livello di secolarizzazione. I risultati hanno dimostrato che la maggior parte degli stati (circa il 70% in tutto il mondo) non rispetta i diritti di chi si identifica come umanista, ateo, agnostico o più ampiamente non-religioso.

Arianna Tersigni

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