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Non c’è sinistra senza etica del lavoro

Il 1° maggio, passavo davanti al centro commerciale della mia zona (nel quale mi sono guardato bene dall’entrare, perché il 1° maggio non si fanno acquisti per una questione di principio), tutti gli esercizi erano aperti e si lavorava come ogni giorno. Il 1 maggio è ormai solo una vacanza per studenti (quelli che non fanno i precari), pubblico impiego e pochi altri: ha perso il suo valore simbolico, perché il lavoro non è più un valore.

Il processo iniziò negli anni ottanta, quando, dopo la fine della stagione dei movimenti, le delocalizzazioni industriali, il graduale declino del welfare, l’ascesa dell’ipercapitalismo finanziario, iniziarono a delegittimare il lavoro come fattore principale dello sviluppo economico e come fondamento della vita sociale.

A questo, devo dire, dette il suo generoso contributo l’Autonomia Operaia negriana (che, significativamente, perse presto l’aggettivazione “operaia” per diventare semplicemente “Autonomia” che non si capisce di chi e da cosa) teorizzando il “rifiuto del lavoro” come forma di rivoluzione, idea discesa da una cattiva digestione della tematica marxiana della liberazione dal lavoro. Quel che era alimentato da un sogno infantile che descriveva un mondo interamente automatizzato e socializzato, che, in concreto, si traduceva nel migliore aiuto all’offensiva neo liberista contro il lavoro: se il lavoro non ha valore etico per te, non ne ha per gli altri e, conseguentemente, cessa di avere anche valore economico.

Disoccupazione, precariato e sotto salari sono fenomeni interdipendenti e sono figli, oltre che della crescente automazione, di questa svalorizzazione del lavoro. Il Capitale ha risposto all’Autonomia: “Rifiutate il lavoro? Ma chi ve lo vuol dare?! Potete scegliere fra disoccupazione e precariato”.

E, dunque il lavoro, in Europa, ha cessato anche di essere il fondamento della democrazia sociale e delle istituzioni repubblicane che da essa derivano. E’ la precarizzazione di massa, dove ad essere precario, cioè insicuro, non è solo l’impiego, ma è anche la professionalità e, con essa va a farsi benedire anche lo sviluppo economico e sociale. Sapete dirmi a che serve tenere un giovane agli studi per 13 anni (senza contare l’università) se per tutta la vita alternerà lavori come consegnare pizze a domicilio, rispondere in un call center, fare il commesso in un centro commerciale o il badante?

Il fatto è che il lavoro ( quello serio, non quello di chi ti rompe le scatole ad ogni ora, per un annuncio commerciale telefonico che dovrebbe essere proibito per legge) è una necessità sociale, almeno per ora insopprimibile, e chi pensa di poter vivere facendone a meno, pensa solo di vivere alle spalle dei lavoratori dei paesi emergenti, che producono quel che lui consuma. Insomma è un parassita.

Ma la storia si vendica e, se i profitti di questa colossale macchina di sfruttamento finiranno nelle tasche di una borghesia globalizzata e senza nazione, che si sposterà man mano dove gli converrà, lo sviluppo ci sarà solo nei paesi emergenti e le metropoli occidentali diverranno zone di sottosviluppo nel giro di qualche decennio. E qui c’è già il conto da pagare: 1 giovane su 3 è disoccupato e 3 su 4 di quelli che lavorano sono precari, e tutti non avranno una pensione o, se l’avranno, se ne parla oltre i 70 anni e per sussidi da fame.

Cari amici che sognate il rifiuto del lavoro, questa non è la stessa cosa che la liberazione dal lavoro ed è una cultura di destra e tutt’altro che antagonista al sistema. Voi aspirate a vivere con le briciole che cadono dal banchetto dell’ipercapitalismo finanziario, ma durerà ancora poco.

E poi, vivere senza lavorare non è questa idea così nuova: da secoli lo fanno padroni e rentier alle spalle degli altri. E’ per questo motivo che sono e sarò sempre contrario ad ogni forma di “reddito di cittadinanza” che è solo un espediente delle classi dirigenti neoliberiste per gestire questa fase di passaggio senza correre rischi di rivolta sociale. Il che non significa che non si possano e debbano fare interventi temporanei (sottolineo: temporanei) di sostegno alla domanda, di assistenza sociale ad esempio per garantire il passaggio da lavoro a lavoro, ma assolutamente no ad ogni politica che pensi di istituzionalizzare una fascia sociale di “miseria assistita” e tenuta come riserva di consenso al sistema.

D’altro canto, non si può uscire da questa situazione semplicemente riproponendo il lavoro così come lo abbiamo conosciuto nell’età d’oro del welfare. Certamente dobbiamo richiamare la manifattura in Europa, senza della quale possiamo scordarci ogni futuro di sviluppo (e qui i tedeschi sono gli unici che l’hanno capito), ma questo non può avvenire riproponendo gli stessi rapporti di produzione, la stessa organizzazione del lavoro, la stessa tecnologia, lo stesso rapporto con l’ambiente. Bisogna ripensare un po’ tutto a partire dallo sviluppo della principale forza produttiva esistente: il lavoro vivo, cioè l’essere umano. Venti anni fa lessi un articolo che nel sommario aveva una espressione che mi colpì molto: “dobbiamo abituarci a pensare che il lavoro sarà sempre più una risorsa scarsa”. Dunque, non è il lavoro che crea risorse. Ma è esso stesso ad essere una risorsa che, per di più, si avvia a divenire scarsa. Questo perché si confonde il concetto di lavoro, alla cui base c’è il lavoro vivo, cioè l’uomo, con “il posto di lavoro” offerto dall’impiego di capitali, dunque, graziosa concessione della finanza.

Dobbiamo rovesciare questi termini della questione e rimettere sui piedi le cose capovolte. Ma occorre tener conto del fatto che il “lavoro vivo” non è più quello di mezzo secolo fa, c’è stato un processo di incorporazione del sapere sociale (e più grazie alla rivoluzione dei media che a quella della scuola statale che si è mossa con troppa lentezza) che lo ha modificato, reso più flessibile, più adatto a lavori con maggiore contenuto di pensiero astratto, più creativo, anche se questo è accaduto in misura ovviamente diversa da persona a persona. Ma proprio per queste ragioni, tendenzialmente, è un lavoro vivo meno adatto ai lavori che richiedono sforzo fisico, meno adattabile a lavori ripetitivi, più libero e, perciò stesso, meno facilmente disciplinabile, e forse meno stabile. O pensate che l’ideale di vita di un giovane europeo dell’inizio duemila possa essere un lavoro per cui per tutta la vita farà il tramviere, l’operaio metallurgico o l’impiegato dell’anagrafe?

Una parte della sinistra (quella del museo delle cere) pensa che la soluzione sia questa, magari riconquistando le garanzie perdute. Ovviamente, questi lavori saranno necessari ancora per un tempo non prevedibile ed una parte dei giovani troverà lavoro in queste mansioni. Ma è anche vero che la robotica ridurrà il numero degli addetti a questi settori e cambierà le mansioni ed i processi lavorativi. In ogni caso è presumibile che una larga parte dei nostri giovani non trovi troppo allettanti impieghi del genere. Forse questi lavori possono essere immaginati come iniziali, ma garantendo mobilità sociale verso mansioni più adatte alle caratteristiche e capacità dei nuovi lavoratori entro sei o sette anni. E dunque, in un mondo che vedrà una falcidia si posti di lavoro per via dell’automazione, occorre sviluppare una diversa offerta della forza lavoro che punti su impieghi a più elevato contenuto intellettuale. In primo luogo lo sviluppo stesso di nuove tecnologie, ma anche altri settori, dalla comunicazione all’intrattenimento, dalla ricerca alla formazione, dalla gestione dei problemi ambientali al turismo eccetera eccetera (ma ne riparleremo). Guarda caso sono i lavori che cercano (e spesso trovano) all’estero le masse di giovani che stanno andando via dal paese.

Ma, soprattutto, non è detto che l’unica forma di lavoro debba essere quella del lavoro dipendente, è auspicabile invece che si sviluppi un modello basato sull’autoimprenditoria e sul lavoro associato. I giovani che non vogliono finire in un call center devono abituarsi a farsi “imprenditori di sé stessi” e scoprire la risorsa dell’impresa autogestita ed i soldi pensati per l’oltraggiosa proposta del reddito di cittadinanza devono essere spesi per sostenere questa nuova forma di impresa.

La sinistra ha ragione d’essere se è partito dei lavoratori, ma non è detto che il lavoro debba essere quello di mezzo secolo fa. La storia, non perdona ai ritardatari, ricordiamocene sempre.

 

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