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Nella tela del ragno. La maledizione della disoccupazione

Nella tela del ragno è un saggio lucido e approfondito di Romano Benini e prende in esame l’evoluzione del mondo del lavoro in Italia e in Europa (Donzelli, 2014, 364 pagine, euro 21,50).

Per capire meglio la situazione italiana bisogna partire da un dato fondamentale: “Il confronto sul Pil pro capite, che misura la ricchezza individuale… è davvero impressionante: tra il 1999, anno chiave dell’introduzione dell’euro, al 2014, l’Italia è l’unico tra i paesi dell’euro ad avere avuto una diminuzione della ricchezza delle persone, che è calata del 3 per cento. Nello stesso periodo la media europea ha visto invece, nonostante la crisi, un aumento” del 10 per cento, mentre in Germania il cittadino medio è diventato più ricco del 20 per cento (p. 7).

Il tasso di occupazione italiano viaggia intorno al 56 per cento, il valore più basso al mondo tra i paesi sviluppati (p. 157). In Italia “solo il 15 per cento di chi viene licenziato trova un lavoro entro un anno (dati 2014)”. L’Italia è l’unico paese che non ha monitorato i prezzi durante l’introduzione dell’euro e questa mancanza governativa ha avuto quasi l’effetto di dimezzare gli stipendi (i prezzi di moltissimi beni e servizi professionali sono raddoppiati). In Italia il lavoro costa troppo a causa delle tasse sul lavoro che devono coprire anche i costi sanitari. L’Italia era la Cina d’Europa: produceva molte merci di bassa qualità e questa fetta di mercato è oggi in mano ai paesi asiatici.

Le istituzioni non sono capaci di decidere, le persone non cambiano e fanno molte cose poco utili. L’italiano medio è tradizionalista, non rinnova le abitudini organizzative e la produttività è ferma ai livelli di venti anni fa. Le persone benestanti, acculturate e capaci emigrano; quelle povere, ignoranti e incapaci fanno quello che possono. E l’incapacità italiana di parlare bene una lingua straniera peggiora di molto il quadro della situazione. Gli italiani devono valorizzare la tecnologia nel mondo del lavoro e gli imprenditori italiani dovrebbero investire sui prodotti di alta qualità (anche nell’artigianato), soprattutto nel design, nel turismo e nel settore agroalimentare.

L’Italia rimane il paese europeo con l’ambiente burocratico peggiore per fare impresa e con i livelli di competitività e di produttività tra i più bassi d’Europa, a causa degli scarsi investimenti nelle nuove tecnologie, nell’istruzione e nella formazione (i lavoratori non riescono a rinnovare le vecchie abitudini). La maggior parte delle assunzioni non sono meritocratiche, ma seguono la solita trafila della segnalazione interessata e della raccomandazione basata sullo scambio di favori.  

Secondo molti studiosi il vero problema dell’Italia è il centralismo burocratico romano, corrotto o apatico. In effetti oltre la meta dei miliardari italiani vive a Roma. Roma “ha il record di disoccupazione tra le capitali europee” e “importa per un valore pari al doppio di quanto esporta” (p.13). A Roma vengono stabilito le regole che “hanno in questi anni separato la ricchezza dal lavoro, il denaro dalla produttività, alimentando rendite e ostacolando il valore aggiunto”. Gli interessi molto particolari di pochi privilegiati danneggiano il reddito di tutti. 

Comunque Romano Benini è uno studioso polivalente capace di porre le domande giuste. Ad esempio: “Se i giovani non lavorano chi paga le pensioni degli anziani? Se la disoccupazione è alta, chi paga i servizi pubblici? Se la ricchezza non proviene dal merito e dalla capacità, ma dalle rendite, quale società creiamo e quali valori promuoviamo?” (p. 12). Purtroppo i politici non si rendono conto che “è la capacità che fa il capitale. Il termine di riferimento per capitale e capacità è il latino caput, che significa principio, guida, origine, per l’appunto capo” (p. 135). Quindi una classe dirigente incapace non può produrre nuova ricchezza e si limita a distribuire poco e male la ricchezza prodotta. Le politiche passive come la cassa integrazione sono sempre privilegiate.

Forse il motivo principale per cui il lavoro in Italia è così difficile da trovare è questo: non si investe abbastanza nella ricerca di base, in quella applicata e nelle start-up, specialmente in quelle universitarie. Negli Stati Uniti dal 1980 al 2005 quasi tutti i nuovi posti di lavoro sono stati creati da società che avevano meno di cinque anni. Ad esempio General Motors e General Electric non hanno aumentato il numero di dipendenti negli Stati Uniti, mentre Intel, Apple e Microsoft e tutte le nuove aziende dei nuovi settori tecnologici hanno creato quaranta milioni di posti di lavoro.

In ogni caso “una politica che non promuove pensiero, azione e creazione è in sé disumana” (p. 27). Senza meritocrazia si blocca il potere creativo del talento e purtroppo anche gli imprenditori italiani preferiscono assumere dipendenti servili, che costano poco, per risparmiare qualcosa subito, invece di investire in persone di valore, in grado di far aumentare i guadagni nel tempo. 

 

Romano Benini dirige il master in Management dei servizi per il lavoro della Link Campus University di Roma. Cura la rivista online www.workmag.it, è autore di Okkupati, format Rai sul lavoro. Collabora con la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro e si occupa di Cna Impresasensibile (www.impresasensibile.cna.it, associazione di promozione dell’artigianato).

 

Nota produttiva - Il costo del lavoro non va considerato singolarmente, ma va valutato insieme alla produttività: “Alcuni paesi molto produttivi, come la Danimarca o il Regno Unito, riescono a sostenere un costo del lavoro superiore persino a quello italiano” (p. 108). La tassazione del lavoro in Italia è molto alta: 42,5 per cento (siamo secondi in Europa e sarebbe meglio tassare i redditi).

Nota depressiva - Il ridimensionamento degli investimenti in welfare e “il controllo del debito, in Svezia come in Italia, corrisponde in questi anni al crollo dell’occupazione giovanile” (p. 155). La Germania ha investito molto nelle politiche attive e nei servizi per il lavoro e per l’orientamento.

Nota fiscale - I contributi fiscali delle imprese italiane sono i più alti d’Europa e sono aumentati anche in questi anni di crisi: nel 2014 siamo arrivati “al 68 per cento del profitto, mentre la media europea negli stessi anni è scesa al 41 per cento” (p. 110). In Croazia si paga il 20 per cento.  

Nota personale - Gli assurdi blocchi delle assunzioni nel settore pubblico ha aggravato il bilancio dell’INPS. I giovani lavoratori del settore privato dovranno contribuire pesantemente per pagare anche le pensioni dei dipendenti pubblici, con la conseguenza di alzare il costo del lavoro privato.

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