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Napoli Teatro Festival Italia: un’inguaribile infelicità, eppure...

Los hijos se han dormido + Espía a una mujer que se mata (Napoli Teatro Festival Italia 2012)

Esiste un personaggio felice, nelle opere di Čechov?

Questa la domanda che resta in testa dopo aver assistito alla doppia messa in scena del regista argentino Daniel Veronese per la quinta edizione del Napoli Teatro Festival Italia. Ecco, se ci è permessa aprire una parentesi, una cosa molto apprezzabile del festival è quello di potersi organizzare una giornata tematica, seguire cioè un personale percorso quotidiano, preso per mano da un regista, ma soprattutto da un autore. In questo caso si parla di un gigante, Čechov appunto, che riesce a conservare intatta la sua forza e pregnanza nonostante la lingua non sua e non nostra.
 
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Impressionante è che sia la stessa compagnia di attori a mettere in scena prima Los hijos se han dormido (adattamento de Il Gabbiano, Teatro Nuovo, ore 21), e poi Espía a una mujer que se mata (adattamento di Zio Vanja, Galleria Toledo, ore 23.30), e la cosa non deve essere affatto semplice, vista l’intensità dei testi e della recitazione: gli attori sono duramente provati a fine rappresentazione, il loro “esaurimento” è visibile: si sente rimbombare un colpo di pistola e, finita ormai la recita, l’abbraccio di un personaggio/attore all’altro è così forte da voler quasi comunicare un conforto reale: dove finisce la vita, e dove comincia la rappresentazione?
 
Recitare due opere così “consumanti” fa sì che il confine tra attore e personaggio diventi quasi inesistente, una cosa che può essere molto pericolosa (per l’attore, sicuramente) e molto affascinante (per lo spettatore, almeno) allo stesso tempo.
 
La scena delle due rappresentazioni è simile, un semplice interno (basta cambiare una lettera, ed è subito inferno) casalingo, informale, un tavolo con delle sedie, e poi un divano/letto in un caso, una finestrella “segreta” nell’altro. È questo ambiente povero e spoglio che farà da sfondo all’azione, personaggi che (si) girano continuamente intorno, realmente e metaforicamente: belve in gabbia, o prigionieri rassegnati, si accusano a vicenda, rinfacciano, soffrono, amano.
 
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«Se l’amore appare, bisogna strapparlo dal corpo», dice uno dei personaggi, e un altro, di lì a poco, «Quando sarò sposata, non penserò più all’amore»: in questi due drammi tutti amano, non riamati, tutti vogliono l’amore, eppure è solo infelicità quello che ottengono. Come se un sentimento così forte non potesse che fare male. Il risultato è una vita di dolore e rimorso, rimpianto e tristezza. E certo la vodka così abbondantemente consumata non basta a calmare il cuore.
 
Si volesse tentare una lettura politica della tragedia, per l’indefesso lavoratore Vanja soprattutto, si dovrebbe tener soprattutto conto della provenienza argentina del regista: inevitabile sarebbe la parola crisi, che tante macerie ha prodotto e continua a produrre, distruggendo sogni e speranze. A cosa ci ha portato, tutto questo lavoro? Ma, soprattutto, ci sarà il tempo di riprendersi, di ricominciare una nuova vita?
«Ci riposeremo zio, ci riposeremo…», dice vanamente il gabbiano a un disperato zio Vanja in lacrime, rassegnato e consapevole del fatto che la felicità, la verità, non è nei sogni, ma qui e adesso, rimandando quindi a una felicità ormai impossibile, inesorabilmente.
 
I bambini saranno anche stati messi a letto, ma qui una donna si è ammazzata, e domani sarà un altro giorno, purtroppo.
 
Nell'immagine principale una scena da Los hijos se han dormido

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