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Mosul: l’intervento italiano e i rischi delle grandi dighe

Il 12 marzo in tutta Italia si manifesterà contro la guerra e per l’uscita dalla NATO. L’opposizione all’invio di militari ed armi alla diga Mosul va inclusa nelle ragioni della mobilitazione.

di Francesco Cecchini

 

Conosco la problematica tecnica della Diga di Mosul, o Saddam Dam, per aver lavorato in Iraq per l’impresa, la Rodio di Milano, che eseguì i lavori, prima di ricerche geologiche e poi di consolidamento dal al. Visitai il sito e mi rifiutai di andarci a lavorare non per ragioni economiche, tecniche o politiche, ma perché non volevo trascorrere del tempo isolato dal mondo. Da allora ho però seguito le problematiche, sia tecniche che politiche, della struttura. 

La diga si trova 35 km a nord di Mosul, è la più grande in Irak, è alta 131m., larga circa 3 km ed ha un bacino d’acqua della capacità di 8 milioni di metri cubi, mai finora raggiunti.

Un articolo del Manifesto informa che il governo iracheno ha firmato con la ditta italiana Trevi un contratto per la riparazione della diga per evitare il rischio di un possibile collasso del valore di 273 milioni di euro. Considerato che Mosul è sotto il controllo dell’ISIS, il governo italiano invierà 500 soldati a protezione dei lavori.

Già un articolo del Washington Post del 30 ottobre 2007, del giornalista Amit R. Paley, informava l’opinione pubblica mondiale che la diga era in pericolo di collasso, provocando le inondazioni di Mosul e di Baghdad e la morte di oltre 500.000 persone

Un rapporto tecnico dell’autorevole Army Corps of Engineers, dell’anno prima,2006, definiva la diga la più pericolosa del mondo.

Dall’invasione di Mosul da parte dell’ISIS, o DAESH, nel 2014, l’area attorno alla diga è stata oggetto di operazioni militari, battaglie e bombardamenti, che possono anche aver peggiorato le condizioni delle fondazioni. Anche se il governo iracheno ha sempre negato ciò, probabilmente per non provocare panico.

A fine 2015 i media italiani, e non solo, hanno informato che l’impresa italiana Trevi stava trattando con il governo iracheno per acquisire i lavori di riparazione che dovrebbero iniziare a breve, visto che il contratto è stato firmato.

La proposta di inviare truppe italiane a difesa sia della diga che del cantiere sta sollevando delle obiezioni. La prima è che il governo iracheno dovrebbe assicurare la sicurezza del sito, senza soldati italiani, che sarebbero di fatto essere impiegati in operazioni militari.

Un esempio. L’importante organizzazione ambientalista, Save the Tigris and Iraqui Marshes, non si oppone alla cooperazione tra il governo iracheno e la comunità internazionale, ma a livello tecnico tra esperti e consulenti, senza interventi di tipo militare.

Il governo italiano di Matteo Renzi afferma che l’invio di maestranze italiane nell’area della diga (una quarantina di tecnici, circa) richiede il dispiegamento di forze militari per proteggerli. Una motivazione ufficiale, ma non credibile. 

L’aumento ulteriore delle forze italiane che intervengono in Iraq non sarebbe però solo quantitativo ma anche qualitativo. Finora l’Italia ha schierato 250 militari dell’Aeronautica in Kuwait per le operazioni sull’Iraq effettuate da 4 bombardieri Tornado e 2 droni Predator del tutto disarmati e impegnati in missioni “non letali” di ricognizione e sorveglianza. A questi si aggiungono 650 militari di Esercito e Carabinieri impegnati ad addestrare le forze curde e irachene a Erbil e Baghdad oltre a unità di forze speciali. In tutto 750 militari a cui si unirà presto un’unità elicotteristica per il recupero di feriti e dispersi composta da 130 militari dell’Aviazione dell’Esercito con elicotteri da trasporto NH-90 e da combattimento Mangusta che opereranno da Erbil a favore di tutte le forze alleate nella regione.

L’invio di un battaglione di fanteria meccanizzata (probabilmente bersaglieri della Brigata Garibaldi) con circa 450/500 militari che difenderanno l’area della diga attualmente lontana solo una decina di chilometri dal fronte che oppone le milizie curde ai combattenti dello Stato Islamico, porterà l’impegno in quell’area a oltre 1.500 unità da combattimento con elicotteri da attacco e (si dice) persino artiglieria semovente con gli obici da 155 millimetri Pzh-2000. Una decisione in contrasto con una linea politica mantenuta finora e tesa a evitare il coinvolgimento in azioni belliche. Se è vero che gli elicotteri Mangusta (presenti anche in Afghanistan dove in più occasioni hanno aperto il fuoco contro i talebani) possono risultare idonei a scortare i velivoli da trasporto, l’eventuale presenza di artiglieria a lungo raggio sarebbe compatibile solo con la decisione di offrire supporto di fuoco ai curdi nell’offensiva su Mosul che dovrebbe prendere il via in estate. In ogni caso la presenza di reparti e mezzi da combattimento comporta che gli italiani opereranno in prima linea e non nelle retrovie come è accaduto fino a oggi. Esattamente quello che vuole Barack Obama e gli Stati Uniti.

A Baghdad però non tutti sono entusiasti.

Il ministro delle Risorse idriche, Mushsin Al Shammary, il 20 dicembre scorso, ha dichiarato che l’Iraq «non ha bisogno di alcuna forza straniera per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora». Il leader radicale scita Moqtada Sadr, uno dei protagonisti dell’insurrezione contro le truppe alleate d’occupazione nel 2004 (sue milizie uccisero e ferirono anche molti militari italiani nell’area di Nassiryah tra il 2004 e il 2006) ha affermato che «l’Iraq è diventato una piazza aperta a chiunque voglia violare i costumi e le norme internazionali». Il presidente della Commissione Difesa del Parlamento iracheno, Hakim Zamili ha definito «Irragionevole e illogico» il dispiegamento dei militari italiani Il portavoce delle Brigate sciite irachene Hezbollah, Jafaar al-Husseini, aveva detto chiaramente che «Qualsiasi forza straniera in Iraq sarà considerata una potenza occupante a cui dobbiamo resistere».

Per Baghdad anche l’urgenza dei lavori di ristrutturazione della diga non sembra essere poi così urgente. A fronte dei continui allarmi per il possibile cedimento dell’infrastruttura lanciati dagli americani, vedi il citato rapporto dell’Army Corps of Engineers, il ministro al-Shammary ha affermato che «Tali previsioni sarebbero corrette se la quantità di acqua nel bacino fosse al massimo, mentre attualmente è solo a un quarto». Una situazione dovuta alla carenza di piogge e alla riduzione della quantità di acqua lasciata passare dalla Turchia negli ultimi due anni.

Sulla base dei risultati raccolti al-Shammary e altri quattro ministri hanno presentato al governo un rapporto in cui non si fa alcun riferimento a un possibile imminente crollo e ha confermato che l’appalto assegnato alla Trevi prevede di «aumentare e rafforzare» le iniezioni di cemento nelle fondamenta e di riparare un’apertura di scarico che serve a ridurre la pressione dell’acqua sulla diga in caso di emergenza. Quindi lavori limitati. In termini di sicurezza non convince poi la necessità di schierare un battaglione meccanizzato con carri armati, artiglieria ed elicotteri per protegger 40 tecnici da una minaccia che al massimo potrebbe essere costituita da azioni terroristiche considerato che una controffensiva in grande stile dell’Isis in questo settore pare da escludere.

In Italia sta crescendo l’opposizione a questa decisione del governo di Matteo Renzi.

A Viterbo, il 6 gennaio scorso, si è formato un Comitato nonviolento per la revoca della decisione di inviare centinaia di soldati italiani alla diga di Mosul. 

Il comitato si prefigge di:

  1. opporsi all’invio di centinaia di soldati italiani alla diga di Mosul, e quindi interloquire con il Governo, il Parlamento e il Presidente della Repubblica affinché la decisione annunciata dal Presidente del Consiglio dei Ministri sia revocata dallo stesso governo, ovvero respinta dal parlamento, ovvero non ratificata e quindi vietata dal capo dello stato;
  2. esprimere questa opposizione con l’unico scopo di salvare vite umane;
  3. agire unicamente in forme e con metodi rigorosamente nonviolenti; assolutamente rispettosi della dignità e dell’incolumità di tutte le persone;
  4. riaffermare l’opposizione a tutte le guerre e a tutte le uccisioni;
  5. riaffermare l’impegno a difendere la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani.

Alle persone ed alle associazioni che vogliono impegnarsi in questa iniziativa per la revoca della decisione governativa di inviare centinaia di soldati italiani alla diga di Mosul, il comitato propone:

a) di scrivere al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri, ai Parlamentari, al Presidente della Repubblica per chiedere che il governo receda da quella decisione;

b) di invitare altre istituzioni, associazioni, persone, mezzi d’informazione ad impegnarsi al medesimo fine;

c) di promuovere incontri ed iniziative di informazione e presa di coscienza al medesimo fine;

d) di esprimersi e di agire in modi esclusivamente nonviolenti, nel rispetto della verità e della dignità umana di tutti gli interlocutori;

d) di essere sempre assolutamente chiari nell’opposizione a tutte le guerre, a tutte le uccisioni, a tutte le violazioni dei diritti umani.

Il comitato non prevede formali adesioni e si configura come mero movimento d’opinione inteso allo scopo di far revocare l’irragionevole, illegittima e pericolosissima decisione governativa di inviare centinaia di soldati italiani alla diga di Mosul.

Il comitato auspica che in ogni provincia d’Italia si costituiscano altri comitati nonviolenti per lo stesso fine e con le stesse modalità di azione.

Mittente: “Comitato nonviolento per la revoca della decisione governativa di inviare centinaia di soldati italiani alla diga di Mosul”, presso il “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@ tin.it, centropacevt@ gmail.com, [email protected]

Significative sono le parole dell’Associazione Erinna-Centro antiviolenza, sempre di Viterbo:

L’Associazione ha aderito al Comitato nonviolento per la revoca della decisione governativa di inviare centinaia di soldati italiani alla diga di Mosul. Per lo straordinario valore di questa esperienza, la decisione dell’assemblea di “Erinna” di aderire al “Comitato nonviolento per la revoca della decisione governativa di inviare centinaia di soldati italiani alla diga di Mosul” e’ la piu’ bella notizia in queste prime settimane di impegno della società’ civile per far recedere il governo da una decisione insensata e inammissibile, e così salvare tante vite innocenti; ci ascolti il governo, ci ascolti il parlamento, ci ascolti il presidente della repubblica: sia immediatamente revocata quella decisione folle e sciagurata»

Questo avvenimento, poi, richiama l’attenzione sul fatto che le grandi dighe non promuovono uno sviluppo sostenibile. I fiumi devono, invece, diventare fonte di acqua, vita e pace. Le grandi dighe non devono essere viste solo come fonti di energia pulita, irrigazione, lavoro, fatti non completamente veri, ma devono essere presi in considerazione l’impatto ambientale sul fiume e il suo territorio circostante, il mantenimento della biodiversità del fiume, i diritti dei popoli che condividono il fiume, la pace dei paesi e delle comunità lungo il fiume. Un esempio negativo è il fiume Eufrate che scorre parallelo al Tigri. Questo fiume è disseminato di dighe ed è un disastro ambientale. Lo scorrere dell’acqua è drammaticamente diminuito, vi sono mancanze d’acqua a tutte le comunità lungo il fiume, le cui acque sono fortemente inquinate, non possono essere bevute non possono essere usate per irrigare i campi. Le dighe dell’Eufrate sono armi da guerra. Il Tigri non dovrebbe soffrire dello stesso destino. L’acqua non conosce confini. La costruzione di grandi dighe senza consultare le comunità che vivono lungo i fiumi è sconsiderata e porta a risultati drammatici. In Turchia mancano un paio d’anni al completare la diga di Llsu, la più grande sul fiume Tigri. La diga di Mosul sul fiume Tigri sta diventando una mortale arma da guerra e il futuro può portare rischi anche più grandi.

Vanno cercate delle alternative. Per la diga di Mosul, un’alternativa alla riparazione della struttura e al sostanziale intervento militare, può essere il controllato svuotamento dell’immenso bacino d’acqua.

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