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Morsi, cento giorni di speranze e cruda realtà

Il bagno di folla che l’apparato della Brotherhood, trasferito al fianco del Capo di Stato, ha predisposto per i primi cento giorni del fratello Morsi è un supporto scenico non secondario in ciò che resta un leit-motiv della Seconda Repubblica d’Egitto: il feeling con la popolazione. Lo stadio del Cairo pieno come per la stracittadina calcistica fra Al-Ahly e Zamalek deve servire ad accantonare, in una fase che sembra ancora di festa, l’idea dell’altro Egitto che s’oppone all’islamizzazione e già pensa a un riscatto alle prossime elezioni. Nei cento giorni che Morsi si lascia alle spalle ne sono accadute di cose a iniziare dal fatidico 12 agosto, giorno in cui lo spauracchio di Tahrir, il feldmaresciallo Tantawi, è uscito di scena. Promosso e rimosso dal neo presidente insieme a tutta la vecchia guardia del CSFA e sostituito con generali vicini alla Confraternita o disposti al dialogo con essa. Così s’è detto. Un dialogo reso operativo col duro intervento dell’esercito nel Sinai contro i gruppi jihadisti che avevano attaccato e ucciso 16 guardie di frontiera e contro quelle tribù beduine che fornivano aiuti ai guerriglieri. Chi voleva una conferma del volto moderato e securitario della mano che guida l’Egitto lo trova in questa e altre scelte della coppia Mursi-Qandil con quest’ultimo, fratello egli stesso, nel ruolo di premier.

Nei tre mesi estivi la più diffusa presenza della polizia sul territorio, equipaggiata meno in tenuta antisommossa e maggiormente in funzione collaborativa verso la cittadinanza, rappresenta una precisa linea sostenuta dal nuovo corso politico. Si vogliono offrire segnali direttivi diversi, combattere il caos di usi e abusi nelle grandi metropoli incrementati anche dal lassismo degli ultimi anni. Due problemi su tutti: inquinamento e rifiuti urbani. Eppure c’è chi fa notare che più polizia e buona volontà nella pulizia non possono sopperire a carenze strutturali riguardanti il cospicuo inquinamento atmosferico, ad esempio nella capitale, frutto di trasporti pubblici inesistenti e d’un parco macchine private a dir poco antiquato.

Oppure lo smaltimento dell’immondizia che, già da una decina d’anni cercando nuove soluzioni all’opera pur preziosa dei raccoglitori copti (zabbaleen) s’è infilata nel culo di sacco di privatizzazioni spesso inefficienti e inceppate attorno a questioni tecniche: uso di grandi raccoglitori o raccolta porta a porta. Oppure alle differenze urbanistiche fra la zona medioevale collinare della città, la parte coloniale otto e novecentesca, gli sterminati sobborghi. Anche per il non ancora iper consumistico Egitto la via da seguire fra discariche, inceneritori e raccolta differenziata diventa una scelta irrinunciabile. 

L’attuale amministrazione, simbolo della nazione in versione islamica, deve misurarsi col verbo quotidiano e mediarlo con l’ampia attenzione rivolta alla macropolitica basata su economia da rilanciare e prestiti da gestire, siano di provenienza statunitense, saudita, turca e di organismi internazionali come il FMI. 

Un balletto nel quale il dottor Morsi, inizialmente apparso una modesta controfigura del grande fratello escluso Al-Shater, è riuscito a districarsi egregiamente con un’attivissima campagna di rapporti e viaggi all’estero e due uscite di peso nelle assemblee delle Nazioni Unite e dei Paesi Non Allineati. Sebbene in quest’ultima assise il suo intervento sia stato poco conciliatorio con Teheran nella diversa valutazione della crisi siriana e ciò ha attenuato l’atteso effetto distensivo fra sunniti e sciiti. Un altro passo critico, a detta dei suoi oppositori, Morsi l’ha compiuto sul tema palestinese: c’è chi lo giudica filo Hamas perché non nomina mai Israele e chi anti Hamas per via dello sbancamento dei tunnel sul confine di Rafah che tanto ricorda l’ultimo Mubarak. Ma nei parallelismi col passato pesano molto di più le denunce di organismi come il Fronte Nazionale di Protezione della Rivoluzione che raccoglie adesioni fra giovani laici e l’ala giovanile della Fratellanza. Quest’ultima, giunta tardi sulle barricate, ha nei mesi seguenti tenute alte tensione e presenza in piazza e tuona che il processo di cambiamento non può venire interrotto da opportunismi di potere.

Suoi portavoce che hanno sostenuto Morsi nel ballottaggio contro Shafiq dichiarano a malincuore come anche il mese scorso, dunque nel sessantesimo giorno della presidenza islamica, il nuovo corso delle Forze Armate non ha cambiato metodi verso i manifestanti. I fermati durante le proteste (per l’acqua) e gli scioperi (medici, insegnanti, lavoratori delle costruzioni) hanno subìto soprusi e maltrattamenti. Qualche incarcerato anche torture. Gli attivisti si lamentano: “Cosa sta cambiando?”, sono vaccinati contro parate e promesse e non sono disposti a concedere nulla neppure ai volti che rivendicano un passato di galera come taluni capi della Confraternita. Incalzano per spuntarla sul tema dei processi ai civili che non devono più essere appannaggio dei Tribunali militari. Così tengono le distanze, come le hanno tenute alcuni politici liberali e salafiti cui la Fratellanza Musulmana aveva offerto la partecipazione al governo. Tutti hanno declinato l’invito. Per il momento ciascuno risponde del suo operato poi si vedrà. Comunque i sondaggi parlano di un sostegno plebiscitario al presidente: il 79% degli intervistati è con lui, un amore addirittura superiore di quello nutrito dai venezuelani per Hugo Chavez. Ma cento giorni non sono quattro mandati, la strada per Mursi è appena iniziata. Nessuno sa ancora dire dove porterà.

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