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"Mondo è stato e mondo sarà": il romanzo antropologico di Giuseppe Melillo

In questa locuzione che appartiene alla tradizione culturale lucana si racchiudono le contraddizioni proprie del mondo lucano. Giuseppe Melillo, antropologo, studioso della cultura lucana, collaboratore per produzioni cinematografiche e televisive, utilizza questa locuzione come titolo per la sua opera prima, un romanzo breve nel quale dà voce ad alcuni personaggi che descrivono la complessa dialettica tra rassegnazione e voglia di cambiamento che caratterizza il conflitto tra i ceti egemoni e il popolo di braccianti, piccoli agricoltori, mezzadri e piccoli artigiani. 

L’autore pur facendo espressamente riferimento alla Basilicata i caratteri culturali dei personaggi sono quelli Lucani. La storia narrata da Melillo vuole essere atemporale perché tale è il conflitto tra elites e popolo. A conclusione del racconto l’autore richiamando alcuni personaggi realmente esistiti lascia intendere che si è ispirato liberamente ad essi. “ Mondo è stato e mondo sarà” è il titolo ma anche la frase conclusiva del romanzo: un modo di dire che dà la misura della rassegnazione delle plebi verso i soprusi esercitati dai ceti dominanti. Di fronte ai soprusi le possibili opzioni sono: rassegnarsi o andare via.

La fuga dei giovani dalla Basilicata che oggi sta determinando crollo demografico e mancato ricambio generazionale evidenziando il nesso che esiste tra demo - grafia e demo -crazia, è un dato che ha contrassegnato anche nei secoli passati la Società lucana. I lucani che non accettano di rassegnarsi scelgono di andare via ed è quello che fanno Mingo e Cayo, cercano una soluzione individuale ai loro problemi. Il primo quando scopre, subito dopo l’unità d’Italia, di non essere più il possessore della terra coltivata per generazioni dalla sua famiglia; il secondo quando prende atto dell’impossibilità di coronare il proprio sogno d’amore con la donna che ama, Rocio, perché il locale “don Rodrigo” la vuole fare sua. Mingo e Cayo vengono espulsi dal sistema sociale lucano che si regge sulla regola non scritta del “mondo è stato e mondo sarà”. Per coloro che restano in Basilicata la Storia è finita o forse non è mai iniziata. Per coloro che per ragioni diverse scelgono di andarsene si avvia un processo di trasformazione che li porterà a prendere coscienza del proprio stato personale per poi passare da classe sociale in sé a classe sociale per sé. Mingo e Cayo sono l’ideal-tipo nel quale è possibile riconoscere migliaia di lucani emigrati verso i centri industriali del nord Italia, della Germania, della Svizzera, del Belgio e della Francia. Integrati in quei sistemi sociali ed economici hanno preso coscienza partecipando alle lotte operaie che hanno caratterizzato la storia politica, sociale ed economica dei Paesi che li hanno accolti. Chi di noi non conosce la Storia personale di un emigrato lucano a Torino o Milano diventato dirigente sindacale o di partito? Sia Mingo che Cayo, anche se in modo diverso, sono il prodotto delle trasformazioni sociali ed economiche che attraversano il Mezzogiorno, e quindi la Basilicata, a partire dalla nascita dello Stato unitario. L’eversione dell’asse ecclesiastico, la questione demaniale e quindi degli usi civici, per gli effetti avuti sulle masse contadine richiama alla mente l’Enclosures Acts che determinò la proletarizzazione del mondo contadino britannico; nel Sud Italia assistiamo, però, al consolidamento di un latifondismo parassitario che aveva sposato per convenienza il Liberalismo, in Inghilterra alla nascita e all’affermarsi di una borghesia che farà di quel Paese la prima potenza economica, militare e finanziaria. Mingo e Cayo usciti dai confini della loro terra prenderanno coscienza del loro essere classe in sé, parteciperanno alle lotte sociali che caratterizzavano quegli anni fino alla fine tragica di Cayo morto in Francia durante la dura repressione operata da guardie armate contro i manifestanti. Il conflitto sociale è una caratteristica della modernità che non ha nulla a che vedere con le jacquerie medievali. La presa di coscienza di Mingo, grazie all’opera di un personaggio come il “Monaco Bianco” , un vero e proprio AgitProp” , leninista ante litteram, passa attraverso l’apprendimento del leggere e dello scrivere e dà la dimensione di ciò che è stata la lotta di classe condotta da masse proletarizzate dalle trasformazioni sociali ed economiche imposte dalla borghesia. Considerato il contesto Mingo e Cayo avrebbero potuto scegliere di diventare briganti; non fanno questa scelta, la loro è una scelta di modernità: diventano proletari. La conclusione del racconto racchiude la contraddizione del popolo lucano: Rocio, la donna amata da Cayo, capisce da una serie di fatti che l’uomo amato è morto e la risposta che si dà è “Mondo è stato e mondo sarà” . Questa conclusione pone delle domande alle quali ancora non sono state date risposte o, se date, appaiono parziali e incomplete. Perché i lucani fuori dal contesto sociale lucano acquisiscono coscienza di classe? Qualcuno potrebbe osservare che abbiamo avuto momenti di lotta contadina e bracciantile in Basilicata ricordando Rocco Scotellaro. Qualcuno altro potrebbe richiamare la “marcia dei centomila” che mobilitò il popolo lucano contro la volontà del governo che aveva individuato Scanzano come sito unico nazionale delle scorie nucleari. Altri ancora potrebbero ricordare il brigantaggio e le gesta di Carmine Crocco, Ninco Nanco ed altri capi banda che per un quinquennio depredarono e saccheggiarono la Basilicata; si tratta di manifestazioni estemporanee. La bellezza del racconto di Giuseppe Melillo è nella descrizione dei personaggi che racchiudono lo spirito lucano e di quelle contraddizioni che fanno oscillare i lucani tra aspirazione al cambiamento e rassegnazione, che altro non è che riflusso nel privato e ricerca di soluzioni individuali a problemi determinati dal contesto sociale e dai rapporti di forza tra classi sociali. Una possibile risposta è forse la mancata modernizzazione della società lucana. L’individualismo lucano non è quello borghese e liberale ma quello proprio del mondo contadino legato alla conservazione della “roba” e allo scorrere del tempo non scandito dai ritmi della fabbrica ma da quello dello stagioni alla fine sempre uguali a se stesse. 

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