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Mi chiamo Maya, il delicato esordio di Tommaso Agnese

Poi ci sono esordi italiani che meritano attenzione per la delicatezza con cui raccontano la storia che hanno in mente di raccontare. Ed è il caso di Tommaso Agnese e del suo Mi chiamo Maya.

Nicky ha 15 anni e vive con la madre e la sorellina di 9 anni. Poi la madre muore e le due ragazze vengono accolte in una casa famiglia sotto la cura di un’assistente sociale non proprio di abilità estrema. Presto verranno divise. La piccola andrà con il padre in america, per la grande bisognerà trovare una soluzione diversa (hanno infatti due padri diversi).

La cosa non piace alle due sorelle che decidono per la fuga e per alcuni giorni si aggirano per Roma nel tentativo di decidere che fare del loro futuro.

E da qui si sviluppa il film, che è certamente la storia di una famiglia particolare e dell’alore tra le due sorelle, ma è forse ancor di più uno spaccato della gioventù (perduta) in una grande città occidentale.


Le due ragazze si imbattono infatti in un panorama di arte varia che comprende in rigoroso ordine di apparizione: la compagna di scuola che arrotonda ballando sul cubo in discoteca e soprattutto esibendosi in spogliarelli in videochat; la ragazza di buona famiglia, che ha a disposizione la carta di credito dei genitori e passa le giornate tra feste e una evidentemente fasulla ricerca di purificazione; l’artista di strada; la giovane punk tatuatrice tutto sballo e alternatività.

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Agnese riunisce tutto in un calderone che però funziona, perchè segue il solido filo conduttore della fuga della ragazza. Il bestiario che ci viene mostrato si porta dietro anche una denuncia che mi sembra per nulla nascosta. Nessuno dei giovani aiutanti di Nicky è mosso da puro altruismo. Tutti cercano in cambio qualcosa, fosse anche solo la possibilità di esporre agli amici il trofeo della ragazza ricercata.

Di cose da dire su Mi chiamo Maya ce ne sarebbero parecchie, ma forse è il caso che andiate a vederlo e vi godiate racconto, accuse, delicatezza e la bravura sorprendente di Matilda Lutz, oltre a quella (meno sorprendente) di Valeria Solarino e di Carlotta Natoli (nella sua breve apparizione). E molto brava è anche la piccola Melissa Monti.

Una nota però sull’inadeguatezza totale dei servizi sociali (almeno nel caso raccontato dal film) mi sento di farla. Ci imbattiamo in un’assistente sociale incapace (e sulla cui storia forse sarebbe stato il caso che Agnese si fosse soffermato maggiormente) e ad una casa famiglia che è evidentemente un posto invivibile, non tanto come stuttura ma come compagnia.

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