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Meno città, più bellezza. Intervista a Paolo Berdini sul consumo di suolo

Paolo Berdini, urbanista, è membro del Consiglio Nazionale del WWF. Cura un blog personale per «Il Fatto Quotidiano».

Il consumo di suolo: che cos’è e perché dovremmo preoccuparcene?

Il consumo di suolo è essenzialmente l’ulteriore allargamento delle nostre città, la continua espansione nonostante la popolazione sia sostanzialmente ferma da circa vent’anni. Peraltro nell’ultimo decennio non sono neppure aumentate le famiglie, ci troviamo in una complessiva stasi demografica, in un Paese che dispone di 29 milioni di alloggi a fronte di 26 milioni di famiglie. Quindi - fatte salve le eccezioni di poche periferie urbane ancora bisognose di edilizia popolare - possiamo concludere che in Italia si è costruito molto di più di quanto fosse necessario.

Tre milioni di alloggi “superflui”. Cosa se ne può dedurre?

Che costruiamo non per le famiglie, ma evidentemente per il profitto degli investitori privati, come ad esempio i fondi sovrani del Qatar: esempio che mi piace riprendere perché proprio a Milano i fondi sovrani del Qatar hanno appena acquistato un grosso immobile, un grattacielo in costruzione. Ma dal punto di vista della popolazione non c’è più alcun bisogno di portare avanti la costruzione e di aumentare la già imponente impronta delle nostre città.

Ma perché questo dovrebbe essere un problema per noi? Quale danno ce ne deriva?

I danni li dividerei in due categorie. La prima è quella economica, che ci lascia sgomenti per il nostro futuro: tutte le nostre Amministrazioni locali - e non ho difficoltà a dire “tutte”, senza eccezioni - sono in deficit di cassa, dalla più piccola alla più grande (eclatante il caso di Napoli, che lo scorso gennaio non ha i soldi per mettere in circolazione i mezzi pubblici) e non possiamo più permetterci di offrire servizi pubblici a zone urbanizzate tanto ampie. Perché il ragionamento è molto semplice: più aumentiamo l’impronta a terra (cioè l’espansione delle nostre città), più siamo costretti a portare servizi nelle zone di nuova urbanizzazione, con tutti i costi che ciò comporta. Ciò è manifestamente impossibile, in un momento in cui non abbiamo neanche i soldi per far funzionare l’esistente.

Prima invece le cose erano diverse?

È cambiata un’epoca: fino a dieci anni fa contavamo su una crescita impetuosa delle nostre città, facendo affidamento su una spesa pubblica crescente, e lì tutto tornava: i critici e gli urbanisti potevano poi essere più o meno d’accordo, tuttavia la macchina funzionava. Oggi questa macchina non funziona più, quindi un Paese saggio dovrebbe dire: fermiamola perché non abbiamo più risorse per far fronte ai nuovi fabbisogni che stiamo producendo. Poi c’è il problema ambientale, perché anche l’ambiente non ce la fa più a sostenere il peso enorme di questa cementificazione eccessiva: abbiamo un suolo oltremodo problematico dal punto di vista idrogeologico - basti osservare che non c’è un solo evento meteorologico “eccezionale” che non abbia le sue vittime - e l’unica “grande opera” che un Paese come il nostro dovrebbe ambire a realizzare non è l’espansione di aree urbane di dubbia tenuta, ma una gigantesca operazione di risanamento idrogeologico che porterebbe, questa sì, un reale miglioramento. Si tratterebbe di una spesa pubblica che metterebbe al lavoro centinaia di imprese e realizzarebbe un’opera produttiva e meritoria dal punto di vista sociale.

Quindi - sembra un paradosso, ma non lo è - si potrebbe creare lavoro riducendo il consumo di suolo, invece di accrescerlo.

Esatto, sarebbe questa la grande proposta per uscire dal tunnel di una crisi che dura ormai da sette anni. Si tratta di politiche che altrove hanno già un grande successo: si pensi agli Stati Uniti - che in questo sono molto più avanti di noi - dove il governo sta portando avanti con cospicui finanziamenti delle politiche volte a ridurre l’impronta delle città, proprio per tener conto della gravissima crisi del mondo produttivo, soprattutto dell’automobile. Un obiettivo che si accompagna al recupero energetico e alla messa in sicurezza del territorio (che perlatro è molto meno instabile del nostro). Un esempio da seguire.

C’è già qualche esperienza anche da noi, qui in Europa?

Le esperienze europee ormai non si contano più: si pensi che la Germania - con intento che accomuna sia la destra sia la sinistra, tanto per evidenziare che sull’argomento non esistono divisioni ideologiche - ha stabilito un tetto regionale al consumo di suolo. Obiettivo: arrivare al 2050 con un consumo di suolo pari a zero. Ovviamente, a fronte di questo ambizioso obiettivo, i tedeschi hanno già messo in bilancio i fondi necessari a ristrutturare le zone ormai in disuso, come le ex aree industriali dismesse.

In realtà, dal punto di vista dell’immaginario collettivo, questo sembra un discorso un po’ controintuitivo: perché siamo di fronte non solo a un aumento complessivo della popolazione mondiale, ma anche a un’immigrazione crescente diretta ai nostri Paesi centreuropei. Di conseguenza, abbiamo sempre la sensazione di essere in aumento. Come andrebbe invece posta la questione?

In realtà questo è il cuore del problema, si tratta di un’illusione ottica che falsa l’intera prospettiva. Per capire come stanno realmente le cose bisogna lasciar un attimo da parte la percezione delle cose, e guardare i numeri. Ebbene la popolazione italiana, dati alla mano, è stabile da almeno cinque anni: siamo non più di 60 milioni, oltre ai circa 3 milioni e mezzo di permessi. Questo è tutto: la popolazione non cresce. Tuttavia, può essere interessante anche affrontare l’ipotesi teorica di un flusso migratorio imponente e non censito: quello che c’è da dire a questo proposito, è che di solito questa gente non viene in Italia con la famiglia, ma da sola; queste persone potrebbero non aver bisogno subito di un alloggio (che spesso non possono permettersi), ma di una stanza, magari condivisa, ricavata all’interno di uno stabile in disuso (ad esempio una scuola). Anche in questo caso ipotetico, dunque, non esiste un “problema degli alloggi” da risolvere con il cemento. Si tratta di ipotizzare un uso nuovo e intelligente del patrimonio, che da qualche parte si cominicia già a sperimentare con successo.

Al giorno d’oggi si tende a giustificare ogni cosa dicendo che “è il mercato a richiederlo”. Esiste davvero un imperativo del mercato che spinga a consumare altro suolo?

Al contrario: io sostengo è che domanda e offerta possono incontrarsi oggi senza la necessità di costruire ancora. Ma la questione, dal punto di vista del mercato, possiede risvolti ulteriormente inquietanti: si pensi che nel centro-sud la questione della speculazione immobiliare sta raggiungendo vertici preoccupanti, con una riduzione del valore degli immobili del 20-25% rispetto ai valori del 2008. Se continueremo a costruire soltanto per fare un favore ai grandi proprietari delle aree e ai pochi investitori internazionali, non c’è alcun dubbio che i valori degli immobili continueranno a calare; e questa sarà un’ulteriore “mazzata” per una popolazione che ha già dovuto subire tutti i colpi del crollo economico e dell’austerità. Si ricordi che in Europa le famiglie sono proprietarie delle case in cui abitano per il 78%, cifra record al mondo. La questione è molto seria.

Consumo di suolo: un problema locale, nazionale, o sovranazionale?

È un problema nostro, locale e nazionale, che all’estero non esiste. C’è un’esperienza che possiamo fare tutti: quando sorpassiamo le Alpi, in Svizzera, in Francia, le città improvvisamente finiscono e comincia l’area non urbana. Da noi non è così: c’è invece uno stillicidio di suolo urbano che sembra non finire mai. Abbiamo bisogno di nuove regole; soprattutto, c’è bisogno che le Amministrazioni pubbliche riprendano in mano la direzione dell’edificazione. L’anarchia dell’impresa privata ha fatto il suo tempo. Dobbiamo tornare a governare le nostre città.

In realtà la nostra esperienza ci mostra in molti casi che la politica locale (e perfino nazionale) non basta, e che le cose cambiano significativamente solo quando c’è una direttiva dall’Europa da recepire obbligatoriamente. Esiste forse una normativa europea che possa tracciare la strada in tal senso?

Purtroppo mi trovo d’accordo, lo stimolo dell’Europa è stato spesso determinante per noi. Alcune norme sono in discussione, ed affermano sostanzialmente che le città devono cessare di espandersi, anche per assecondare il consistente flusso delle delocalizzazioni produttive verso luoghi extraeuropei.

E che uso si potrebbe immaginare per questo suolo non più dedicato all’urbanizzazione?

Qui si aprirebbe un mondo intero di possibilità: basti pensare al recupero della tradizione agricola e alla produzione di alta qualità, che ancora in tante parti d’Italia riesce ad andare avanti, nonostante le tante difficoltà in cui versa oggi l’agricoltura.

Per chiudere: questa del consumo di suolo è una questione meramente economica, oppure ha a che fare con la bellezza, e dunque con la qualità complessiva della vita?

La bellezza, soprattutto. Insomma, ne parlavamo prima: abbiamo le periferie più brutte dell’Europa occidentale, e questo incide certamente sulla qualità della vita delle tante famiglie (e sono la maggior parte, in Italia) che vivono in periferia. È una questione di cultura e di civiltà, ancor prima che di assennatezza nell’uso delle risorse a disposizione.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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