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Maurice Sachs - “Il Sabba”

“Sono nato trentadue anni fa in una famiglia quanto mai disordinata. Ci si sposava e divorziava con incredibile vivacità”. Con queste premesse, l’autore de Il Sabba, romanzo autobiografico da poco uscito da Adelphi, non poteva aspirare a una vita regolare e piccolo borghese – quando ciò accade, di solito il contrappasso indizia un’infelicità rattenuta, nascosta e difesa con i denti.

Maurice Sachs preferì risparmiarsela e prese il toro per le corna che qualcun altro caso mai sarebbe stato costretto a portare a causa sua, essendo l’agitato e al momento (1939) non affermato scrittore, lento nel perseguire i suoi obbiettivi letterari ma lestissimo nel passare da un letto all’altro, preferibilmente maschili anche quando la tradita di turno era niente di meno che la sua fresca sposa. Ena Marchi ricorda nella postfazione che mentre scriveva questo libro “Bello non era proprio: a 30 anni era pingue, quasi calvo, pieno di malattie psicosomatiche piuttosto repellenti. Eppure era pronto a scommettere, vincendo, di riuscire a portarsi a letto chiunque, uomo o donna che fosse, a Parigi al massimo in otto giorni”.

L’impresa era degna di nota se consideriamo che un omino non più avvenente di lui – l’abruzzese dalle ambizioni imperiali che si faceva fotografare sdraiato sui divani del Vettoriale in pose che volevano essere sinuose e feline e invece, appuntava caustico il buon Arbasino di una volta, conclamavano una rachitica complessione – aveva dalla propria il provincialismo e l’arretratezza di un paese, l’Italia, in cui non è mai stato difficile costruire suggestioni per l’abbocco dei più. Gli ambienti di riferimento nel caso di Sachs sono cosmopoliti, trattandosi intanto della Parigi di Gide e Cocteau (adorati ma biasimati, il primo perché traccheggia prima di spendere una buona parola per lui, l’altro perché era un uomo “senza cuore”). Viceversa, a proposito di se stesso, e al netto dell’elenco di truffe e raggiri, e della dichiarata bassezza, Sachs si concedeva il vanto di “un cuore buono”. A ogni modo, colmo di ammirazione per la moltitudine di talenti sparsi nella Parigi del dopoguerra, si compiaceva di non combinare un granché – di restare a lungo nella condizione di scrittore molto immaginario. Ma capace di fregare il prossimo con grazia non comune. E di non guardare in faccia a nessuno se si trattava di imbucarsi nei luoghi giusti per far sparire l’argenteria.

Grande regnava la confusione di arte e vita in quella di Sachs, che alla prima non dedicava la necessaria disciplina e della seconda offriva una spettacolare versione. Giovò a “Maurice la checca” in questo senso la fama tutt’altro che usurpata di truffatore, avventuriero, ladro e impostore; l’amore se lo pagava, ma pure se lo conquistava in virtù di una chiacchiera seduttiva, da finto innocente (come appunto in questo libro, scritto, sempre a suo dire, come “una lettera”). Confessa una sorta di complesso di inferiorità che lo induce a credersi non meritevole dell’amore altrui, quello maschile specialmente (il solo che lo interessi davvero), e lo esenta dal sentirsi in colpa se è costretto a ricorrere a sotterfugi e raggiri per averlo. Che è un modo, dal punti di vista morale, non banale per farla franca. Che fosse anche un alcolizzato, la scrittura di questo libro lo dice ma non lo mostra, compassata com’è, essa sì un (costruito?) contrappasso, un tentativo di assoluzione per averne fatte di tutti i colori. Ebreo figlio di atei si convertì al cattolicesimo, entrò in seminario (va da sé che denunciasse come “prive di fondamento” le voci secondo le quali lo aveva fatto per sfuggire alla pletora di creditori che gli davano la caccia), ne fuggì con l’accusa di aver messo le mani addosso a un ragazzino. Prese la via dell’America, e vi sposò la figlia di un pastore protestante, salvo mollarla dopo pochi mesi per un bell’americano che si sarebbe portato in Europa. Un bel bastardo, insomma, che il peggio lo combinò facendosi assoldare dalla Gestapo per spiare i suoi connazionali. Osando troppo penserete voi. Che non immaginate il resto, ossia che Sachs provò a truffare anche la Gestapo. E i tedeschi, si sa, certe cose non le prendono bene.

Nel Sabba, il primo dei due libri autobiografici (i suoi studiosi li considerano i migliori, l’altro è la La chasse a courrè e verrà pubblicato anch’esso da Adelphi), questa parte ovviamente non può esserci (per la cronaca, i poco spiritosi tedeschi lo fecero smettere di scherzare con un colpo alla nuca) ma il fatto rende l’idea di questa vita sgangherata - un sabba… -, qui raccontata con tono quasi contrito, non sai mai quanto voluto e sotto sotto ironico – ossia, beffardo senza parere. Un valore aggiunto alle cronache di un mondo le cui storie non finiremo mai di leggere avidamente.

 

Maurice Sachs: “Il Sabba” (Adelphi; pp.332; 22 euro) traduzione di Tea Turolla e Leopoldo Carra

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