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Mashrou’ Leila: il progetto di una notte

I testi del gruppo musicale libanese Mashrou’ Leila sono fortemente critici nei confronti dell’ipocrisa, del patriarcato e del bigottismo religioso del loro paese. Per questo hanno subito minacce e pressioni. 

«Voi avete i vostri valori, l’amore è il nostro, voi avete le vostre usanze, noi abbiamo la nostra musica, voi avete delle tradizioni, noi abbiamo il futuro. Abbiamo fatto troppa strada per rinunciare a chi siamo, e allora alziamo i calici, il cielo è il limite. Abbiamo tradotto i versi di Abu Nuwas e di Saffo, e li abbiamo cuciti sugli striscioni per gridarli nei nostri cortei. Puoi giocare con me, se vuoi, scusa sono troppo ubriaco per rendermi conto di cosa ho nella testa, voglio sedurti, voglio attirarti».

«Tu, ragazza con la giacchetta e i pantaloni… col berretto da baseball in testa… o in pigiama al supermercato, senza trucco in faccia, con i capelli corti… ti ho visto lì tutta da sola, che andavi e venivi come ti pareva, e ti ho scambiato per un ragazzo. Pardon, pardon. Battezzo il mio fegato col gin, ballo per scacciare i jinn, affogo il fegato nel gin, nel nome del padre e del figlio. Come posso occuparmi di politica, quando sono tutti così pigri e tutti convinti che la propria religione sia quella del colore giusto? Non ne possiamo più della religione, siamo stanchi dell’umiliazione, con i crampi della fame, stufi marci di mangiare merda, e abbiamo la lingua lunga».

I versi di queste canzoni non suonerebbero forse particolarmente controversi o provocatori nel panorama della musica pop contemporanea, se non fosse per il fatto che la band che li ha composti, i Mashrou’ Leila, li cantava in arabo per un pubblico prevalentemente mediorientale, con tutte le implicazioni che questo può comportare a livello di censura e resistenza culturale.

Il loro “progetto di una notte”, traduzione letterale del nome (se non si vuole intendere con “Leila” un nome proprio femminile) è durato in realtà quattordici anni, dal 2008 al 2022, periodo in cui, da gruppo goliardico formatosi un po’ per gioco all’università americana di Beirut, i quattro artisti libanesi sono ascesi alla fama internazionale grazie al loro talento e a una musica ricercata, ma allo stesso tempo orecchiabile e ballabile, interpretata carismaticamente dal frontman Hamed Sinno.

Fin dal primo evento importante a cui si sono esibiti, la Fête de la Musique del 2008, le polemiche sono iniziate a causa dei contenuti satirici dei testi, fortemente critici nei confronti della società libanese. La band denuncia apertamente la sclerotizzazione culturale, la dipendenza economica ma anche psicologica dai Paesi del Golfo, la tirannia, l’ipocrisia, il patriarcato, il bigottismo religioso…

Non solo, il cantante Hamed Sinno non fa mistero della propria omosessualità, elemento che emerge provocatoriamente in diverse canzoni. Per esempio, Shimm el Yasmine (Il profumo del gelsomino, titolo che si può leggere come un riferimento alla rivoluzione dei gelsomini) è un’ode d’amore chiaramente declinata al maschile, ricorrendo anche ai formalismi dell’arabo classico, in cui Sinno rievoca una storia finita con un ragazzo con cui aveva convissuto e che aveva persino presentato ai genitori. Per questo motivo, la band viene notata dalla comunità internazionale, che ne amplifica il messaggio, e Sinno appare sulle copertine delle principali riviste dedicate al mondo Lgbt+, come My Kali, Attitude e Têtu.

Va sottolineato che il Libano, per sua conformazione socio-politica è, fra i Paesi del Medio Oriente, uno dei più tolleranti (in senso molto relativo) in fatto di diversità sessuale, essendo altri tipi di diversità (etniche, religiose, o politiche) parte integrante, costituente e ineludibile della vita di ogni cittadino. In questo contesto, a Beirut già da decenni esistono associazioni Lgbt+, come la storica Helem, attiva dal 2001, nonché bar e club dedicati, e si organizzano tranquillamente eventi pubblici, per esempio in occasioni come la giornata internazionale contro l’omofobia.

Dal 2017, per quattro edizioni, si sono svolti pure dei piccoli pride in città. Il principale obiettivo politico del movimento Lgbt+ libanese rimane l’abrogazione della legge coloniale francese 534 contro la sodomia che, seppure inapplicata, espone tuttora la comunità al rischio di ricatti e violenze psicofisiche. Qualche progresso si è visto in tempi più recenti, per esempio nel 2018, quando una corte d’appello ha confermato che il rapporto consensuale tra persone dello stesso sesso non è da considerarsi illegale.

Nel 2010, Hamed Sinno è il primo cantante in Libano a sventolare una bandiera arcobaleno sul palcoscenico, tra l’altro davanti agli occhi dell’allora primo ministro Hariri presente fra il pubblico, senza per questo subire personalmente particolari conseguenze. Tuttavia, con l’aumentare della fama e della visibilità internazionale della band, accresciute anche dalle rivoluzioni del 2011 per cui la musica laica dei Mashrou’ Leila ben si presta a fare da colonna sonora, alcune lobby religiose cominciano a fare pressioni per boicottare le loro performance.

In Giordania, uno dei Paesi con più follower della band, nel 2016 le autorità si barcamenano per qualche mese tra il concedere o il negare l’autorizzazione al concerto in programma ad Amman. L’esito finale è il divieto totale, successivamente reiterato, di esibirsi su tutto il territorio nazionale.

Nel 2019 i Mashrou’ Leila sono gli artisti più attesi al Byblos festival, una sorta di Glastonbury del Medio Oriente. Qualche settimana prima dell’evento scoppia un’infuocata polemica sulla loro partecipazione, quando la chiesa libanese protesta vigorosamente per i contenuti ritenuti blasfemi e offensivi della sensibilità cristiana nella loro musica. Il target della polemica sono due canzoni in particolare, tra l’altro già presentate dalla band in edizioni precedenti del festival.

La prima è Jinn, un testo sullo sbronzarsi al bar, dove il cantante usa un gioco di parole tra “jinn”, i demonietti del folklore islamico, e “gin” l’alcolico. La seconda si intitola Idoli e sembra criticare l’uso distorto fatto dai cristiani del messaggio del loro profeta: «Crediamo alla sua storia per giustificare i nostri idoli… Lo abbiamo crocifisso col legno del teatro… Hanno ripetuto le sue parole, le hanno sacralizzate e recitate…». Iniziano a circolare teorie della cospirazione secondo cui la band sarebbe un progetto “massonico-sionista” volto a corrompere moralmente il Libano, citando la loro advocacy per i diritti Lgbt+.

Viene inoltre fatta circolare sui social media un’immagine che Sinno aveva condiviso su Facebook anni prima, raffigurante un’icona bizantina della Vergine Maria la cui testa era sostituita da quella della cantante Madonna, facendo scattare l’accusa di satanismo. In realtà quell’immagine accompagnava un articolo sulla pop art che Sinno aveva banalmente condiviso e poi rimosso dal suo profilo, senza avere avuto alcun ruolo nel realizzarla.

Alcuni movimenti di destra sobillano i propri attivisti a prepararsi a bloccare lo spettacolo con la forza nel caso le autorità non avessero deciso di annullarlo. Anche l’eparchia maronita di Biblo richiede formalmente la cancellazione del concerto, e il Centro cattolico dei media si dichiara pronto a intraprendere un’azione legale contro la band. Inevitabilmente, fioccano le minacce di violenza e di morte sui social media.

La band viene effettivamente convocata in questura il 24 luglio 2019, ma dopo l’interrogatorio, le accuse di blasfemia e incitamento all’odio interreligioso vengono fatte cadere. Il Byblos Festival tenta inizialmente di mediare un compromesso, proponendo alla band di esibirsi regolarmente, ma senza suonare le due canzoni incriminate, salvo poi cedere alla pressione dei media e dei vari gruppi religiosi, annullando l’esibizione dei Mashrou’ Leila onde evitare «disordini civili e spargimenti di sangue».

La gravità e la risonanza di questa vicenda sono tali da destare la preoccupazione sia di Human Rights Watch che di Amnesty International, organizzazioni che denunciano da una parte le istituzioni, che dovrebbero farsi garanti della libertà di espressione e proteggere i gruppi più vulnerabili, e dall’altra la posizione della chiesa libanese, che ha apertamente incitato i fedeli all’odio e all’omofobia.

Per fortuna, la parte sana della società non ha esitato a far sentire la propria voce: il giorno dell’evento, un concerto di cover della band è stato organizzato in centro a Beirut, alla presenza di oltre mille persone, e alle 21:00, ora originariamente prevista per lo show, i locali di tutta la città hanno mandato in onda la loro musica.

Tuttavia, la storia dei Mashrou’ Leila sarà per sempre legata a un’altra vicenda, quella della morte scioccante, straziante, assurda, della loro fan egiziana Sarah Hegazi. Proveniente da una famiglia conservatrice, Sarah decide di avvicinarsi all’attivismo femminista e socialista dopo essersi sentita ispirata dalla rivoluzione del 2011, momento storico in cui, racconta, «Non mi sono mai sentita così viva».

Nel 2016, anno della sua laurea, si toglie l’hijab e fa il suo coming out come giovane lesbica. Il 22 settembre 2017, i Mashrou’ Leila sono in concerto al Cairo, e Sarah non perde l’occasione di partecipare all’evento e di approfittarne per rivendicare la propria libertà sventolando la bandiera arcobaleno. Purtroppo, a differenza del Libano, nell’Egitto di Sisi è in corso una feroce campagna governativa di annientamento di ogni identità queer, e il gesto di Sarah non viene tollerato dalle autorità.

Insieme ad altri attivisti presenti al concerto, la ragazza viene arrestata con l’accusa di incitazione ad atti immorali e dissolutezza. In questura, stando al suo racconto, Sarah viene brutalmente interrogata sulla sua religione, sul fatto di non portare l’hijab, e sulla sua verginità. Rimane quindi per tre mesi in custodia della polizia, periodo in cui subisce varie forme di tortura, dall’essere ammanettata a una sedia col bavaglio in bocca, o bendata, e sottoposta a elettrocuzione fino a perdere i sensi.

Gli agenti inoltre incitano gli altri prigionieri maschi a picchiarla e a molestarla sessualmente. Dopo la scarcerazione, nel 2018, Sarah cerca rifugio in Canada, dove spera di rifarsi una vita, ma il trauma che ha subito in quei tre mesi ha lasciato un segno indelebile nella sua psiche, e la depressione e il disturbo post traumatico da stress si rivelano per lei insostenibili.

Il 14 giugno 2020, a soli 30 anni, si toglie la vita. Nel suo messaggio d’addio, scrive: «Ai miei fratelli: ho cercato di sopravvivere, ma ho fallito, perdonatemi. Ai miei amici: l’esperienza è stata dura e io sono troppo debole per resistere, perdonatemi. Al mondo: sei stato per lo più crudele, ma io perdono».

Hamed Sinno si sente avvilito e profondamente in colpa per l’esito scioccante di questa vicenda, al punto di considerare di abbandonare per sempre la musica. Tale sconforto, unito all’embargo imposto alla band nei Paesi dove i Mashrou’ Leila avevano più audience, in aggiunta al pesante clima di vessazioni, minacce e costanti campagne d’odio, porta infine alla decisione di sciogliere la band, nel settembre 2022.

Sinno continua oggi la sua carriera come artista solista. Proprio mentre chiudiamo questo numero è tornato in scena dopo tre anni di pausa, con il suo ultimo show, Poems of Consumption, al Barbican Center di Londra.

Paolo Ferrarini


Ne parla Paolo Ferrarini sul numero 4/23 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaarabbonati oppure acquistala in formato digitale.

 

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