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Martini: un cardinale di rispetto, in vita e in punto di morte

E’ morto ieri il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano. Molti, in queste ore, stanno giustamente mettendo in luce la sua statura di uomo che non si è mai sottratto al confronto. La sua morte può dunque essere lo spunto per riflettere su alcuni temi, dal rispetto per chi prende strade diverse alle scelte di fine vita. Ma anche del futuro stesso della Chiesa cattolica.

Martini non era un dissidente: non si è mai contrapposto frontalmente alle gerarchie ecclesiastiche, di cui peraltro faceva autorevolmente parte. A maggior ragione non era nemmeno un eretico: non si è mai discostato dalla dottrina cristiana, arrivando a difendere la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche perché “bisogna anche tenere conto delle tradizioni e della sensibilità della gente”. Era però un uomo che su tanti temi, scientifici e bioetici, ha sempre cercato di comprendere la posizione altrui, anziché condannarla. Un atteggiamento “conciliare”: proprio perché “figlio” di un evento che non ha certo rivoluzionato né la Chiesa né la sua dottrina, ma il cui cambiamento più significativo, a nostro avviso, è stato quello di concepire la Chiesa non più come un inattaccabile e inaccessibile punto di riferimento dell’universo, ma come parte minoritaria di un mondo in dialogo con tutte le altre.

Da questo punto di vista, la morte di Martini rappresenta anche la fine di un’epoca: la morte dell’ultimo cardinale che continuava lo stile di Giovanni XXIII. La candidatura dello stesso Martini era del resto uscita imprevedibilmente sonoramente sconfitta già alla prima votazione dell’ultimo conclave. Con Wojtyla e con Ratzinger il cattolicesimo è tornato indietro, riprendendo ad atteggiarsi come depositario della verità assoluta – e pertanto indiscutibile. Con la non piccola differenza che, in epoca pre-conciliare, questa condotta era figlia di un’antica tradizione di potere imposto. Oggi la Chiesa non ha più molti margini di manovra per intimare perentoriamente agli Stati e ai cittadini di accogliere nelle loro legislazioni e nelle loro coscienze la sua dottrina. Rischia seriamente di diventare meramente autoreferenziale, e quindi settaria.

In quanto increduli abbiamo potuto sperimentare da vicino questo progressivo scivolamento. Il Concilio, attraverso la tanto celebrata costituzione pastorale Gaudium et spes, aveva continuato a esprimersi in termini duri nei confronti dell’ateismo, “annoverato fra le realtà più gravi del nostro tempo”: “se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave [...] tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione”. Anche Benedetto XVI si esprime in questo modo. Ma quel testo, nonostante si fosse in un’epoca in cui il fenomeno dell’ateismo era, purtroppo, soprattutto “ateismo di stato”, fece seguire a queste parole l’affermazione che “la Chiesa tuttavia riconosce sinceramente che tutti gli uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme”.

E’ una constatazione che possiamo anche far nostra, a parte l’imperioso “tutti devono”, e discutendo magari all’infinito sui contenuti dell’aggettivo “giusta”. E’ invece un’impostazione che si fa assai fatica a ritrovare nelle dichiarazioni degli ultimi due pontefici e delle gerarchie ecclesiastiche contemporanee. A differenza di Martini, un uomo stimato soprattutto perché rispettava gli altri e si poneva in ascolto. I suoi periodici incontri milanesi con i non credenti sono stati aboliti dai suoi successori ed erano impostati a un confronto paritetico, ben diverso dai presunti “dialoghi” con interlocutori di comodo re-inventati recentemente dal Vaticano.

Una vita da rispettare, dunque, quella di Martini. Da rispettare fino all’ultimo. Ha suscitato polemiche, sul web, la sua decisione di rifiutare l’accanimento terapeutico. La sua scelta è stata spesso confrontata con quella negata a Piergiorgio Welby. In realtà la questione è “teologicamente” più sottile: la Chiesa stessa ritiene lecita, e già a partire da Pio XII, la rinuncia all’accanimento terapeutico, in presenza di “procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi” (Catechismo, n. 2278).

E tuttavia la stessa Chiesa, e per la precisione la Congregazione per la dottrina della fede, ritiene che “la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali” è “obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente”. E’ la stessa impostazione che ha cercato di introdurre nella legge italiana attraverso il famigerato Ddl Calabrò, che nell’ultima versione redatta dalla Camera recitava: “alimentazione ed idratazione [...] devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”.

Ebbene, se è vero quanto scrive Repubblica, raccogliendo le dichiarazioni del suo neurologo di fiducia, il cardinale Martini “è stato sottoposto a terapia parenterale idratante. Ma non ha voluto alcun altro ausilio: né la peg, il tubicino per l’alimentazione artificiale che viene inserito nell’addome, né il sondino naso-gastrico”. Forse per la prima volta nella vita, sarebbe dunque andato contro la dottrina cattolica ufficiale.

Ebbene, se è vero quanto scrive Repubblica, raccogliendo le dichiarazioni del suo neurologo di fiducia, è dunque lecito per noi auspicare che, come Martini (e fors’anche come Giovanni Paolo II), tutti i cittadini possano liberamente decidere di rifiutare cure e decidere sulla propria vita. Non è più ammissibile che la Chiesa conservi il potere di stabilire chi ne ha diritto e chi no.

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