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Manovra finanziaria: scontro Renzi-UE sul deficit. La mano debole di un pessimo giocatore d’azzardo

Per il terzo anno consecutivo, cioè dal suo arrivo a Chigi, Matteo Renzi si appresta a buttarla in caciara con la Ue per poter quadrare i conti (si fa per dire) con più deficit. Conosciamo l’obiezione governativa: il rapporto deficit-Pil italiano non sta aumentando bensì diminuendo, e resta sotto la soglia del 3%, quindi non c’è alcun aumento di deficit. Le cose non stanno in questi termini: correggendo per il ciclo economico, nel 2016 l’Italia ha aumentato il deficit-Pil strutturale, cioè riferito al Pil potenziale, dello 0,7%, e questo a preventivo. A consuntivo, stante il rallentamento, potrebbe anche fare peggio.

Fuori di tecnicalità, e come vi ripetiamo esattamente da un anno, nel 2016 l’Italia ha realizzato una politica di bilancio pro-ciclica, cioè ha aumentato il deficit durante una fase di espansione, pur se blanda. Per il 2017, in un quadro congiunturale che appare significativamente deteriorato, soprattutto per noi, il rischio è quello di dover andare ben oltre un deficit-Pil assoluto del 2,4%, e di doversi spingere alle soglie del 3%, solo per mantenere invariato il deficit-Pil strutturale. Questi sono i risultati, quando si attuano misure pro-cicliche e per giunta di scarsa efficacia moltiplicativa. Dopo la cosiddetta sfuriata di Bratislava, in cui Renzi, pur avendo firmato la dichiarazione conclusiva del vertice (che è il solito distillato di banalità e luoghi comuni), si è platealmente dissociato dal logoro pseudo direttorio franco-tedesco, alcuni osservatori, noti per essere delle valenti buche delle lettere di Palazzo Chigi, hanno lasciato uscire degli spifferi secondo i quali Renzi vorrebbe sfidare la Commissione Ue e andare ad un deficit-Pil del 3%. Questa canzoncina la sentiamo dal 2014, a dirla tutta. Si parte con un bel “e gli altri, allora?”, si invocano gli sforamenti spagnolo e francese e si avvia un bel dibattito domestico in cui si finisce a fare il verso a grillini e no-euro assortiti.

Narrano gli spifferi della buca delle lettere che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sarebbe contrario a forzature, e non da oggi, preferendo ricorrere alla diplomazia della tecnocrazia, che poi è a sua volta politica, in essenza ed in ultima istanza. Ad esempio, tentare di ottenere la ridefinizione di output gap, cioè dello stesso Pil potenziale, in modo da dimostrare che, anche senza flessibilità aggiuntiva, il nostro paese dovrebbe già essere in linea con le richieste comunitarie, in modo (ad esempio) da neutralizzare definitivamente le clausole di salvaguardia senza bisogno di coprirle ogni anno con spericolati riporti a nuovo, cioè rinvii al futuro. Al momento, la strada della ridefinizione di Pil potenziale ed output gap appare preclusa, o comunque destinata a non arrivare in tempo per il 2017. Il che significa che Renzi è praticamente spalle al muro, a meno dell’ennesimo compromesso che gli permetta di comprare tempo.

Dobbiamo quindi chiederci: quanto è forte la mano di Renzi, a questo giro di carte? In altri termini: quali e quante possibilità ha il premier italiano di mandare a stendere la Commissione Ue e di prendersi il deficit che gli permetterebbe di accomodare senza strette fiscali il previsto rallentamento 2017? La nostra risposta è: molto poche, anzi quasi nessuna. Per comprendere il senso di questa risposta, serve verificare uno ed un solo indicatore: il mercato. So che i più umanisti tra voi a questo punto saranno sdegnati ed inveiranno contro l’odioso mercatista che scrive su questi pixel, ma forse sarebbe preferibile prendersela con la realtà. Perché Renzi ha una pessima mano di carte? Perché i mercati ci tengono sotto stretta osservazione. Anzi, i mercati ci considerano colpevoli sino a prova del contrario. Decenni di episodi di dissesto economico e finanziario, anche molto prima che l’euro arrivasse a fornire un enorme alibi, non sono trascorsi invano. Per il momento lo spread sul debito sovrano è stato anestetizzato dal QE della Bce. Qui la maggiore incognita è cosa accadrà quando la Bce deciderà di staccare il piede dall’acceleratore. In quel momento, il rimbalzo dei rendimenti potrebbe schiantarsi in faccia all’Italia in modo drammatico. Ma di questo parleremo nelle settimane a ridosso della scadenza del QE, a marzo del prossimo anno.

E allora, quali altre vulnerabilità ha l’Italia? Due, in sostanza. Una è data dal fatto che non riesce a piegare il rapporto debito-Pil, che è l ‘unica cosa che conta per valutare se un paese sta crescendo o meno. Sinora, nel 2016, le aste di titoli di stato sono state effettuate con un rendimento medio delle emissioni dello 0,55%, che è il minimo storico di tutti tempi. Ogni anno scade circa un settimo dello stock di debito pubblico, quindi il costo medio sta scendendo. Ma sull’altro piatto della bilancia c’è una crescita del Pil nominale che è comunque troppo bassa per permetterci di ridurre il rapporto debito-Pil, e di allentare il morso dell’avanzo primario che preme sulla trachea della nostra economia. Proprio la sostanziale inesistenza della crescita è ciò che ci impedisce di ridurre la pressione fiscale, malgrado Renzi e Padoan si sgolino a magnificare misure limitate di alleggerimento, fatte in deficit. Sin quando i rendimenti resteranno così bassi, grazie al mantello della Bce, l’Italia potrà respirare o almeno non avvitarsi. Ma se l’Eurotower gettasse la spugna, è verosimile attendersi un risveglio piuttosto aggressivo del premio al rischio-Italia. Un premio che si alimenta, ribadiamolo, dalla nostra incapacità di ridurre l’indebitamento, a causa della bassa crescita.

In questo momento l’elemento di maggiore vulnerabilità del nostro paese, il vero spread, è il sistema bancario. Un enorme stock di sofferenze, alimentate dalla bassa crescita; un sistema economico bancocentrico minato dalla fragilità delle banche. Ad ogni scoppio di avversione al rischio, i mercati puniscono le nostre banche più della media di quelle europee. Bassa crescita, bassa redditività, aumento di sofferenze, quadro normativo esterno molto aggressivo inducono esigenze di ricapitalizzare le banche. Ma i mercati sono molto restii a sottoscrivere questi aumenti di capitale, perché oggi le banche distruggono valore anziché crearne. Da qui il rischio che il sistema-Italia evolva verso l'”esito MPS”: cioè verso conversioni “spintanee” di debito subordinato in azioni. Un “bail-in soft” per evitare il “bail-in hard”, in pratica. Avrete un bel gridare “e la Germania, allora?”. Loro hanno un sistema bancario pubblico per circa un terzo del totale, e soprattutto hanno capacità fiscale. Noi no. Che c’entra questo con la “ribellione” di Renzi? Semplice: Renzi non ha i soldi per nazionalizzare le banche, ed evitare i bail-in (soft e hard) prossimi venturi. Per cercare all’estero gli azionisti stabili serve inoltre un paese che non abbia deciso di prendere a martellate ogni parvenza di stabilità. Vi è più chiaro, ora, perché il minore dei nostri mali resta quello di restare alle regole del gioco?

L’Italia non ha alcuna mano forte, in un eventuale tentativo di ribellione contro le “regole” europee. I mercati non puniscono (ancora) Francia e Spagna, per il fatto che i loro deficit eccedono i parametri Ue, ed il loro sentiero di rientro è lentissimo. Possiamo imbrattare tutti i giornali italiani di dotti editoriali in cui si spiega perché il mondo non riesce a comprenderci, ma il risultato finale non cambia di una virgola. Se poi spostiamo lo sguardo ancora più a sinistra, nel nostro dibattito domestico, leggiamo cose di questo tipo, che sono la sintesi plastica dell’invito a farci esplodere, da soli, in una stanza di cemento armato. A noi italiani è la realtà, ciò che continua a fregarci.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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