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"Madre" Teresa, tra compassione e cinismo

La discussa figura della missionaria Agnesa Gonge Boiagiù, oggetto di lodi e di critiche, fra bende, prebende, medievalismi e risentimenti, sberleffi e scetticismi del mondo laico.

Il primo a criticare seriamente madre Teresa di Calcutta – al secolo Agnesa Gonge Boiagiù (1910-1997), cattolica albanese di Skopje – fu Christopher Hitchens, recentemente scomparso (dicembre 2011) a soli 62 anni. Il noto “super-ateista”, intellettuale fra i più apprezzati degli ultimi anni, andò giù pesante con la beata e premio Nobel per la pace nel 1979. Come tutti gli atei classici, Hitchens parte, con foga, da una considerazione di fondo: non può la religione trascurare la forza dialettica dei laici. Non può emarginare la ragione.

L’opposizione della ragione al sentimento (la spiritualità è altra cosa) è un dato di fatto che tenta di concretizzarsi per lo meno dai tempi dell’Illuminismo. Le difficoltà del distacco sono dovute alla maggiore esperienza del secondo rispetto alla prima: il sentimento (da cui, poi, scaturisce la ragione, per dignità interpretativa dei fatti) ha una storia incommensurabilmente più lunga dell’attività intellettiva. Inoltre, la religione possiede una marcia particolare, prodotta da considerazioni, consapevoli o inconsapevoli, sull’esistere. La reazione di Hitchens (autore, fra l’altro, de La posizione della missionaria. Teoria e pratica di madre Teresa, minimum fax, pp. 134, € 9,00) si basa sulla certezza di dover vivere la propria vita imparando man mano, senza seguire dogmi prefissati.

La seconda posizione è chiaramente subordinata a un potere convenzionale che ti impedisce di agire autonomamente e quindi con coscienza piena e responsabilità diretta: cose alle quali puoi aspirare perché hai le doti, appunto razionali, per farlo. Tuttavia, queste doti razionali si sono emancipate da una irrazionalità istituzionalizzata per logiche contingenti, per supervalutazioni derivate da disconoscenze colmate in fretta e furia con tremebondi voli pindarici, concentrati, in parte (la parte più significativa) sulla soluzione di problemi esistenziali. Hitchens parte da una valutazione filosofica e finisce con una contestazione pratica, di non difficile formulazione. Certo, madre Teresa era molto legata ai dettami della Chiesa: il suo senso di sacrificio – nessuno in India aveva mai pensato a un’opera come la sua, nessuno si era mai battuto tanto per aiutare i più poveri dei poveri – ha qualcosa di francescano e molto di medievale.

Quando madre Teresa afferma che è giusto che tu soffra, dice chiaramente una cosa inaccettabile secondo il metro laico. La sua chiusura alla modernità è una specie di rimprovero al mondo evoluto, che non si cura affatto di certe situazioni, ma è sicuramente anche un rifiuto psicologico del contatto con la realtà, che bene o male guida il mondo: è la realtà del mondo laico. La religione è relegata alla compassione, secondo criteri storicizzati e museali. Facciamo da noi, sembra dire madre Teresa, e siccome facciamo (mentre voi non fate), ebbene, è giusto che le regole siano le nostre. Così la compassione e la pietà – sostanzialmente ingessate – giustificano richieste di aiuto a chicchessia, trattandosi di richieste fatte a un mondo vile. I poveri più poveri non ne sono esenti, ma per fortuna c’è chi provvede: dunque, ringrazino e sopportino.

La sopportazione è la conseguenza di un soccorso spesso approssimativo, fatto da persone inadatte, in luoghi non ideali, con mezzi discutibili. È quanto viene addebitato a madre Teresa, che in questo modo viene tacciata di superficialità e di protagonismo eccessivo: lei, pertanto, avrebbe avuto riconoscimenti oltre i meriti reali. Addirittura si paventa un uso disinvolto delle risorse, che altri (e non pochi) oltre a Hitchens, danno per certo. I media hanno fatto il loro sporco lavoro, lucrando sulla costruzione di un personaggio e rilucrando sulla relativa decostruzione. Come dire che si ha bisogno di eroi, ma che si ha bisogno anche di demolirli. Un piacere sado-masochistico…

In questa situazione caotica, le disamine avventurose si sprecano, perché sorgono da analisi povere pur in presenza di strumentazioni verbali avanzate (troppe chiacchiere e pochi concetti). C’è un pressapochismo dotto che imperversa quasi indisturbato e che fa una cattiva concorrenza al pressapochismo religioso: nel secondo, almeno, c’è tanta passione consolidata. Tutto questo perché si tiene in poco conto la virtù maggiore del laicismo, che ha l’ambizione, giustificata, di voler seriamente cancellare la pretesa della realtà a priori. Il vero laico vuole essere dialettico, in quanto intende rispettare l’opinione altrui.

La conoscenza non può che nascere dal confronto delle diverse esperienze. Si parli in termini di umanità e non di individuo. L’individuo è molto, se pensa e se comunica serenamente il suo pensiero. È poco se pretende di prevalere, trasformando il pensiero in gesto ostile. Cosa c’entra madre Teresa in tutto questo? C’entra, perché la beata è un esempio illustre di rifiuto del dialogo. Avrà avuto i suoi buoni motivi, ma sono motivi superati. Se Chiesa e mondo laico imparassero a dialogare, adottando l’“esperanto”, ne verrebbe un bene enorme per l’umanità, per l’idea di un “nuovo umanesimo”.

Dario Lodi

Questo articolo è stato pubblicato qui

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