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Lotta al terrorismo: quindici anni di fallimenti

Martedì 10 marzo us, sono stato ascoltato, in qualità di esperto, dalle Commissioni Difesa e Giustizia della Camera, in seduta comune, sul DdL-antiterrorismo appena emesso dal governo. Qui di seguito riassunto quanto ho detto in proposito.

Per esprimersi a proposito del DdL 2893 19/feb. 2015 in materia di contrasto al terrorismo, credo sia utile e, addirittura necessario, premettere qualche considerazione più generale su tre lustri di lotta al terrorismo jihadista e tracciare un bilancio della linea sin qui seguita. Mi sembra paradossale questa situazione in cui nessuno prova a dire che la linea antiterroristica non abbia dato i risultati ripromessi.

Mai nella storia c’è stata una campagna antiterrorismo così prolungata e generalizzata a tutto il mondo, con un impiego così ampio di uomini, denaro e mezzi tecnologici ma con risultati così desolanti.

Mi pare che i fatti parlino chiaro: dopo quindici anni di impegno di tutte le intelligence occidentali, tre guerre costate un patrimonio (quella sola dell’Afghanistan 700 miliardi di dollari, l’equivalente del piano Paulson), e numerose missioni minori, ci ritroviamo con il Califfato fra Iraq e Siria, l’enclave fondamentalista in Libia, Boko Haram in Nigeria, ed il pullulare di cellule islamiste in Mali, India, Indonesia, Pakistan, un altro failed state come lo Yemen, Al Quaeda in ripresa che firma gli attentati di Parigi e in Danimarca. E, infine, il fenomeno inedito dei foreign fighters nell’ordine di migliaia di persone. Difficile immaginare un bilancio più in perdita.

Eppure nessun governante o responsabile di intelligence sente il dovere di ammetterlo o di abbozzare una pallida autocritica; anche nella stampa le voci in questo senso sono pochissime ed assai fioche. Siamo di fronte ad un interessantissimo caso di rimozione che meriterebbe studi di psicologia e psicanalisi, ma qui ci interessa piuttosto capire cosa non ha funzionato, perché senza un esame impietoso degli errori compiuti, non se ne verrà fuori e si passerà da disastro in disastro.

Non si può dire che sia mancato l’impegno repressivo o che esso non abbia avuto tutti i supporti necessari, anzi, ripetiamo che non ci sono precedenti di un dispiegamento di mezzi così gigantesco, dunque è evidente che il difetto che dobbiamo cercare sta “nel manico”, cioè nell’impostazione generale.

Iniziamo dalle evenienze più facili da rilevare. A quanto pare le lezioni dell’11 settembre sono state perfettamente inutili. Negli anni immediatamente precedenti al grande attentato, furoreggiava la moda delle fonti tecniche: c’era Echelon, il “grande orecchio” in grado di intercettare tutte le telefonate, le mail ed in genere ogni comunicazione, c’erano i programmi di riconoscimento vocale, di fotografia satellitare, di trattamento dei dati attraverso sofisticatissimi programmi di elaborazione delle informazioni capaci di individuare e segnalare le telefonate sospette ecc. Un invincibile Moloch tecnologico. Eppure questo non impedì a due cellule islamiste, nel cuore dell’Impero, di dirottare tre aerei e portarli a schiantarsi contro le due torri e contro il Pentagono. Poi si è scoperto che gli jihadisti avevano regolarmente frequentato un corso di istruzione al volo, ma si erano mostrati poco interessati alla manovra di atterraggio…

La lezione era che la potenza delle fonti tecniche produce una sovrabbondanza di informazioni spesso inutilizzabili, proprio per il loro eccesso. Il problema è quello di scegliere e trattare le informazioni, attività nella quale le macchine possono dare solo un apporto limitato ed usare parole chiave non è minimamente sufficiente. I dati non servono a nulla se non sono letti, esaminati e trattati da uomini. Questo avrebbe dovuto portare a rivalutare le fonti umane (i confidenti, tanto per capirci) e dedicare molta più attenzione all’analisi.

Ma le correzioni sono state molto limitate. Le spie nella lotta all’islamismo sicuramente ci sono state, ma, a quanto pare, non abbondantissime. Può darsi che questo dipenda da particolari difficoltà di penetrazione dell’ambiente segnato da un alto tasso di adesione ideologica, forse dall’inaffidabilità di questo tipo di confidenti (come il caso Merah ci segnala) o forse da particolari soluzioni organizzative caratterizzate da un forte utilizzo del Web, in ogni caso non si ha la sensazione di un particolare impegno in questa direzione dei servizi, che sembrano fare ancora affidamento prevalente sui mezzi tecnici.

Di fatto, dopo 15 anni c’è grande penuria di notizie sulla struttura dei gruppi islamisti, sulle dinamiche interne, sulle discussioni nel gruppo dirigente, sulle fonti di finanziamento, sui canali di approvvigionamento delle armi ecc. ecc.

E’ comprensibile che i servizi non divulghino tutto quel che sanno sui loro avversari, per cui è logico che le fonti aperte diano sempre un’idea riduttiva del sapere di intelligence, ma i risultati ci autorizzano a pensare che, tutto sommato, i servizi non ne sappiano tanto di più di quello che leggiamo sui giornali. Certo: di più, ma non molto.

Dunque, la prima evidenza è che, nonostante il grande spiegamento di mezzi tecnologici, dell’islamismo radicale ne sappiamo poco e ne capiamo ancor meno, perché l’altra evidenza è il deficit dell’analisi: se un bel giorno ci si trova a sorpresa un esercito come quello dell’Isis che prende Mossul e avanza sin quasi alle porte di Baghdad, vuol dire che l’analisi precedente non era stata fatta bene. E lo stesso potremmo dire della fioritura dei nuovi vistosi fenomeni islamisti come quelli di Libia, Nigeria, del fenomeno dei foreign fighters ecc. Ma la cosa più sconcertante, che depone molto male tanto sulla raccolta di informazioni, quanto sul loro trattamento, è che risulta tutt’altro che chiaro l’operato dei governi e dei servizi saudita, pakistano, quatariota. Si sa vagamente di finanziamenti, di appoggi sotterranei, forse di coperture informative da parte di questi paesi che, sulla carta, continuano ad essere “alleati” nella lotta al fondamentalismo.

Quello che balza agli occhi è che, mentre c’è stato il contrasto poliziesco e militare (e forse in eccesso) è mancato un serio contrasto sui piani politico, culturale e psicologico .

Il fenomeno del radicalismo jihadista è rimasto largamente incompreso nella sua essenza politica, lo si è liquidato come un episodio di fanatismo religioso o, al più, politico-religioso, se ne è colpevolmente sottovalutata la possibile espansione di consensi nelle società islamiche, perché non è stata avviata nessuna seria analisi delle loro dinamiche interne. E così non è stato adeguatamente compreso il fenomeno delle primavere arabe (ed uso intenzionalmente il plurale, essendosi trattato di fenomeni abbastanza diversi fra loro, pur essendosi reciprocamente attivati per “contagio emotivo”), perché, da un lato se ne è sopravvalutata, la componente laica e “liberal”, mentre dall’altro si è fortemente sottovalutata quella fondamentalista e questo errore di prospettive ha impedito che l’Europa potesse giocare un ruolo positivo alimentando le spinte più innovative.

D’altro canto, quale contrasto politico effettivo al terrorismo è possibile se si privilegia il rapporto con l’Islam wahabita che è il ventre fecondo di tutti i movimenti jihadisti? Da sempre, l’Europa e gli Usa hanno ritenuto propri alleati di riguardo proprio Arabia Saudita e monarchie del Golfo, salvo scoprirne, di volta in volta, gli ambigui rapporti con le formazioni terroriste.

Ed è mancato anche un adeguato contrasto, anche per la sostanziale incomprensione della psicologia propria degli jihadisti, anzi, il fenomeno imprevisto dei foreign fighters ci dice che, su questo piano, sono loro ad essere all’attacco e non sarà una misura penale come l’istituzione del reato di arruolamento nelle formazioni jihadiste a fermarlo (come dimostra il fatto che c’era già l’articolo 288 del cp che, però, non sembra aver avuto alcun particolare effetto frenante).

Faremmo meglio a chiederci come mai migliaia di giovani occidentali (e non si tratta solo degli immigrati di seconda generazione, ma anche di europei ed americani “purosangue”) sentono questo richiamo che dovrebbe essere del tutto estraneo alla loro formazione culturale.

Sintomatico di questo atteggiamento politicamente “cieco” è la norma del disegno di legge dedicata alla repressione delle attività di propaganda ed organizzazione via web. Le misure tendono ad identificare e chiudere i siti jihadisti. Una misura difficile da applicare, inutile e controproducente.

Difficile da applicare perché, se il server è in uno stato straniero e magari in uno con cui non ci sono accordi di estradizione o cooperazione giudiziaria in genere, o che agisca in ritardo o non sia d’accordo con la valutazione del sito come jihadista o per cento altre ragioni, non si saprebbe come fare. Oscurare il server? Una misura da Repubblica Popolare Cinese con effetti economici disastrosi.

Inutile, perché il gruppo jihadista che si vedesse reso inaccessibile il sito, ne creerebbe un altro, magari presso altro server, ed i servizi occidentali dovrebbero ricominciare il lavoro di identificazione ed all’infinito.

Controproducente, perché, al contrario, l’interesse è quello di tenere aperti questi siti, per trarne il maggior numero di informazioni possibili, dall’analisi del linguaggio e dei simboli, all’individuazione dei segnali che azionano gli attentati, dall’esame degli eventuali contrasti fra le diverse organizzazioni, alle evoluzioni di linea politica ed alle dinamiche interne al gruppo dirigente di ciascuna ecc. Se poi il server fosse cooperante, si potrebbero ricavare insperate informazioni sul flusso dei contatti, sul loro andamento per zone e periodi, eventualmente si potrebbe persino identificare una parte delle persone che, in questo modo, entrano in contatto con gli jihadisti. Con un accorto monitoraggio e trattando queste informazioni con modelli di simulazione, si potrebbero ricavare interessanti anticipazioni su attentati, crisi interne, evoluzioni del gruppo dirigente ecc.

Semmai, sarebbe opportuno iniziare un’opera di contrasto nel web attraverso falsi siti jihadisti concorrenti, per creare spaccature, introdurre elementi di discorso che disorientino settori di queste aree, vedere chi si collega, attaccare i siti esistenti come falsi ecc. O magari sostenere quei siti islamici radicali ma non jihadisti per limitare il bacino di pescaggio di quanti fanno lotta armata.

All’opposto, la logica del decreto è quella di una repressione cieca e priva di spessore politico che sortirà lo stesso risultato di questi quindici anni: molto prossimo allo zero.

Segnalo l’utilità di consultare i seguenti testi:

Sameera AHMED Mona M. AMER “La psicoterapia con il paziente musulmano” Ferrari Sinibaldi, Milano 2014

Cristian CHESNOT George MALBRUNOT “Quatar” Michel Lafon, Neuilly sur Seine 2013

Lorenzo DELICH “L’Islam nudo” Jouvence, Milano 2015

Franco DE MASI “Trauma Deumanizzazione e distruttività” Franco Angeli, Milano 2009

Anna ERRELLE “Nella testa di una jihadista” ed Tre60, Milano 2015

Manlio GRAZIANO “Guerra Santa e santa alleanza” Il Mulino, Bologna 2014

Farhad KHOSROKHAVAR “I nuovi martiri di Allah” Bruno Mondadori, Milano 2003

Claudio VERCELLI “Pensare il radicalismo islamico” in “Prometeo” anno 32 n 128, dicembre 2014

Lorenzo VIDINO “Piccoli martiri nostrani crescono” in “Limes” “Dopo Parigi che guerra fa”, n 1 2015

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