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Lo shock da globalizzazione

Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ottanta, dopo una gestazione ventennale, ed ormai è al quarto di secolo, un periodo sufficiente ad individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che tutto è cambiato con la globalizzazione, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento.

Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce –almeno in Occidente- che imprese, partiti, mass media ed anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti: tutto viene letto sulla base di analogie con il passato (la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la prima guerra mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel cinquecento e sono gli altri che debbono accettare la cultura più avanzata, quella occidentale ovviamente).

I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto: la crisi finanziaria, imprevista ed imprevedibile, è curata con costanti iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro, le rivolte arabe, anche esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi economica e dinamiche socio culturali che sfugge alle capacità di gestione della comunità internazionale, lo sviluppo cinese ha mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi insospettati e così via.

Questo determina un profondo disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti che si trovano ad affrontare problemi ad un livello di complessità incomparabilmente maggiore del passato; e questo disorientamento già sta producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni. E’ lo shock da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti, politologi ecc.

Almeno per quel che riguarda l’occidente, lo shock sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei governati e l’afasia degli intellettuali.

I decisori appaiono sempre più indecisi sul da farsi tanto sul fianco finanziario (dove l’unica cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa guadagnare tempo ma non cura la crisi), quando sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire). Di fronte ad un corso dei fatti del tutto imprevisto, i decisori (tanto politici quanto finanziari) reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione.

I governati, cui era stato promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito, assistono impotenti al crollo di queste aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita ed avvertono sempre più la paura del futuro. Paura dei diversi che giungono dal sud del Mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro ed identità culturale, paura della crisi che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei paradisi finanziari, ma si accanisce sui ceti medi, paura del terrorismo, delle epidemie, di tutto.

E su tutto questo impera il chiassoso silenzio degli intellettuali che parlano di tutto senza dir nulla. Una critica della globalizzazione e dei modi con cui si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi spinti ai margini e privi, in gran parte, di accesso alle tribune mass mediatiche. C’è una sottile vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano l’unica forma di pensiero legittimata, tutte le altre correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale. La resa senza condizioni della socialdemocrazia ha segnato la riduzione ad uno dello spazio politico: tutto il resto ne era espulso. E il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media, il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà, persino l’uso calibrato del premio Nobel, tutto è stato usato per imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali –in grande maggioranza- si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose, rinunciando ad ogni residuo spirito critico.

Oggi, nel momento della crisi, i decisori –non meno che i governati- non trovano le parole per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi in atto. E questo accade perché dal fonte degli studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa afasia degli intellettuali.

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