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Linee guida sui tirocini: un "political design" che alimenta la legittimazione del precariato

Linee guida sui tirocini: quando la confusione tra gli obiettivi confonde l’obiettivo della regolazione di un lavoro "non rapporto di lavoro" dalla convenienza proporzionata all’assenza di garanzie. 

In data 24 gennaio c.a. la Conferenza Stato, Regioni e Province autonome ha definito i principi generali di orientamento per la regolazione di tre tipologie di tirocini: tirocini formativi, di inserimento/reinserimento lavorativo e, infine, di orientamento e formazione per soggetti disabili, i richiedenti asilo ed i titolari di protezione internazionale.

Un quadro armonizzato rispetto al quale e alla luce del quale Regioni e Province autonome stanno predisponendo le normative di loro competenza. Senza entrare troppo nello iuris disputandum, la lettura del documento di risulta lascia insoluta una perplessità, che non è interpretativa, ma letterale: “il tirocinio è una misura di politica attiva del lavoro finalizzata all’inserimento nel mondo del lavoro”. 

Dichiarazione ribadita a più riprese contraddetta, però, dalla finalità addizionale del reinserimento al mondo del lavoro nelle vesti di politica attiva atta alla fruizione degli ammortizzatori sociali per cassaintegrati, lavoratori in mobilità e disoccupati. Un qui pro quo concettuale di fronte al quale non si intende pienamente perché non indicare forme contrattuali perfezionate per Legge, quale il lavoro occasionale accessorio, come ausilio ad hoc per suddette categorie; non si comprende perché non predicare il ricorso, sempre a favore delle medesime e da parte degli imprenditori, al microcredito; non si comprende il motivo insistente per non voler indossare le lenti dei giovani.

La Commissione europea pungola gli Stati membri già dal 2012 a che il tirocinio venisse regolamentato onde evitarne abusi - uno tra i tanti la dissimulazione di un rapporto di lavoro subordinato”mascherato”; ma l’Istituzione non ha mai omesso le fil rouge di questa necessità, ossia oliare l’inserimento al mondo del lavoro dei giovani, secondo un excursus che - fosse perfetto come un mondo ideale - vedrebbe l’apprendistato appendice del tirocinio e la stabilizzazione lavorativa come logica prosecutio di quello. Esortazione che l’Italia pare disattendere.

Perché, se è vero come è vero che l’apprendistato è contratto di lavoro professionalizzante attivabile non oltre i 29 anni e 364 giorni di età ai fini del completamento di un percorso di formazione o per l’acquisizione di una qualifica, al tirocinio la Conferenza, oltre che un limite di durata - che pone - avrebbe dovuto fissare anche un limite di età e di reiterazione, superati i quali il tirocinio si converta in apprendistato - ove applicabile - o in contratto a tempo determinato.

Perché, se è vero come è vero che la Conferenza correda le convenzioni di tirocinio (ossia gli accordi sottoscritti dal tirocinante, dal soggetto ospitante e dal soggetto promotore) di obblighi precisi gravanti sulla parte datoriale (corresponsione di un’indennità - la cui congruità del minimo fissato ai 300 euro mensili lordi è discutibile in termini di legittimità ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione - assicurazione INAIL e per responsabilità verso terzi, diritto a maternità e malattia, obbligo di comunicazione ai servizi per l’impiego), il tirocinio non si configura ancora come contratto di lavoro, per cui non conferisce diritto né a contribuzione ai fini previdenziali né allo stato di disoccupazione. Un labirinto senza via d’uscita, la tela di Penelope dove la precarietà del precariato tesse le maglie di giovani non più giovani per un apprendistato, ma giovani abbastanza per continuare ad essere tirocinanti, mantenuti dai genitori.

Perché, se è vero come è vero che, dovessero le attività ispettive riscontrare incongruenze esplicite o implicite tali che il sospetto di abuso sia chiaro ed accertato, la conversione del tirocinio in rapporto di natura subordinata opera d’ufficio, alcuna parte terza è stata indicata per verificare l’assoluta imparzialità dell’indagine ispettiva medesima.

Cosa manca, dunque, a questo political design? Manca l’aderenza con la realtà, la ponderazione degli effetti giuridici di un’impalcatura legislativa regionale che non farà che alimentare la legittimazione del sotto precariato; manca l’armonia dello spirito delle leggi ordinarie e degli strumenti alternativi all’uopo percorribili.

Manca la volontà politica di voler risolvere i problemi sociali e del lavoro, restringendo, ad esempio, l’ambito oggettivo di attivazione dei tirocini al solo scopo dell’orientamento professionale ed ampliando, invece, quello dell’apprendistato all’avviamento al lavoro, riconoscendolo erede dello stralciato contratto di inserimento.

Una Costituzione dell’Italia del XXI secolo potrebbe suonare così:

Articolo 1: L’Italia è una Repubblica fondata sul tirocinio, che non è un rapporto di lavoro

Artcolo 4.1: La Repubblica riconosce il diritto allo stage e promuove le condizioni che rendano effettive questo diritto.

Articolo 4.2: Ogni cittadino ha il dovere di formarsi lungo tutto l’arco della vita e di attivarsi per godere della fruizione degli ammortizzatori sociali, senza possibilità di scelta, per avvizzire il progresso materiale e spirituale della società.

Articolo 36: Lo stagista ha diritto ad un’indennità che gli permetta una sopravvivenza al di sopra della soglia di povertà ed una vita ai limiti del dignitoso.

Viene da interrogarsi su chi sia il giovane che deve formarsi per il mercato del lavoro e chi sia il lavoratore, cassaintegrato, in mobilità o disoccupato che necessiti, invece, di politiche di convertibilità lavorativa volte all’occupabilità; ci si chiede dove si collochi oggi il confine tra politiche attive del lavoro di flexicurity e politiche di formazione; ci si domanda, infine, perché formarsi in modo continuativo se la continuità lavorativa è, ormai, approssimazione teorica in un futuro nebuloso.

Ai politici l’ardua sentenza. 

 

Vignetta: La Repubblica degli stagisti

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