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Liberalizzare senza abbassare le tasse: la festa delle multinazionali

Può funzionare una liberalizzazione in un paese con una delle più alte pressioni fiscali del mondo? Può funzionare se studiata così in fretta? Il rischio che porti ad un predominio delle multinazionali sulla piccola impresa non è da sottovalutare; il rischio che rimanga solo una deregulation e non una vera liberalizzazione.


Il decreto per il "disarmo multilaterale di tutte le corporazioni" come lo ha definito recentemente il Sottosegretario alla Presidenza del consiglio Antonio Catricalà è stato varato in fretta e furia: meno di un mese per pensare a tutto, meno di un mese per implementare il restyling della nostra economia commerciale.

Innazitutto vorrei fare un distinguo: il termine italiano corporazione (Associazione di persone appartenenti a una medesima categoria professionale, che tutela gli interessi comuni e regola il corretto svolgimento della professione ) non va confuso col simile termine inglese corporation, (Grande Azienda, Multinazionale) sono due cose diverse se non opposte: le prime sono una sorta di "sindacati degli autonomi" le seconde delle megaziende, megaziende che invece non verrano per niente disarmate da queste misure.

Ad ogni modo, l’attesa dei consumatori per questa fase due del piano riforme Monti è indiscutibile, si spera nelle misure per la crescita, quelle misure che dovranno far riprender fiato al potere d’acquisto degli Italiani (l’economia percepita dai cittadini ultimi), dopo l’amaro boccone natalizio ed il flop dei saldi che hanno registrato un calo delle vendite stimato attorno al 19%.


La soluzione proposta dal governo è basata su forti liberalizzazioni, seguendo una linea di riforme in realtà già in essere dal decreto Bersani del 2006 nel quale si prevedeva ad esempio l’abolizione dell’obbligatorietà del rispetto dei minimi tariffari per le attività libero professionali e intellettuali (es. Avvocati, Architetti) e più libertà di pubblicità, per tutti i professionisti.

Su quella linea di riforme si procede ora rafforzandole: l’abolizione dell’obbligatorietà dei minimi tariffari diventa divieto di stilare qualsiasi tariffario, la libertà di pubblicità viene prima ribadita con la manova di agosto, ed ora rafforzata dal divieto di controllo da parte degli ordini sulla veridicità e del loro diritto di controllo sulla trasparenza e veridicità dei messaggi pubblicitari veicolati dai professionisti.

Altre forti analogie possono essere trovate nei seguenti punti del decreto Bersani: abolizione delle distanze minime, abolizione dei limiti temporali e quantitativi sulle vendite promozionali, e abolizione delle limitazioni riguardanti l’ assortimento di merci vendute da molte categorie di esercizi commerciali, che ora vengono rafforzati con un più generico allargamento d’organico di ogni tipo di professionisti e commercanti. Ovviamente il tutto dovrebbe servire ad aumentare il livello di concorrenza, l’occupazione, e migliorare prezzi e servizi. 

Alcuni principi sembrano incontestabili, eppure, a guardar bene, gli effetti dal 2006 del decreto Bersani non si sono fatti così sentire in termini di riduzione dei prezzi per il consumatore, quindi forse varrebbe la pena di soffermarsi ad analizzare possibili controindicazioni di modifiche così importanti attuate in fretta ed applicate a sistemi complessi maturati nel corso della storia del libero mercato.

Un esempio concreto? Nel mio quartiere ci sono, da almeno 4 anni, 7 bar nel raggio di 500m, tre di essi funzionano benino, gli altri quattro tirano di stenti e periodicamente, dire quasi di sei mesi in sei mesi, falliscono e/o cambiano gestione: sono precari. Ah.. Il prezzo del cappuccino è uguale in tutti e non più basso di altre zone della città.

Servirà davvero sparare su queste istituzioni di controllo, che forse avranno avuto un loro ruolo in ciò che sinora ha funzionato egregiamente? La crisi come sappiamo tutti è venuta dall’alta finanza, non dall’economia della domanda e dell’offerta di beni di consumo e servizi che invece ci ha garantito di vivere, tuttosommato, in una società fiorente. Questa società aveva alcuni organismi di controllo a garantirne la stabilità, organismi nati da essa, liberali, molteplici e democratici, che si occupavano di questioni che il cittadino di tutti i giorni non vede, ma che forse lo proteggono. Con questo articolo vorrei cercare di mostrare, in parte, quali sono.

Quando le caste sono garanzie per i consumatori (Germania docet.)

Vorrei osare, vorrei partire da uno dei concetti più più odiati dagli Italiani, quello del Notaio latino, per confutare la tesi che basti de-regolarizzare tutto per garantire un miglior servizio al cittadino e lo sviluppo di un favorevole regime di libera concorrenza.

Proviamo ad aprire le menti e scagionarle dall’odio reciproco che ci stanno inculcando e che ci divide; D’altronde non bisogna demonizzare la ricchezza no? Il notaio latino è quell'invidiatissimo pubblico ufficiale previsto da tutte le costituzioni Civil Law, cioè quelle derivanti dalla cultura latina e neolatina. Viviamo infatti in una società che è il prodotto di secoli di evoluzione e di studi, abrogare tutto con delle riforme frettolose potrebbe non essere così a favore di un sano sviluppo come istintivamente si è portati a pensare.

La parola magica "liberalizzazione" non basta infatti a garantire i diritti del consumatore. Una liberalizzazione è una cosa seria, che porta ad un regime di libera concorrenza solo se fatta con criterio e oculatezza. Alcune istituzioni infatti, corporazioni comprese, servono anche a garantire i diritti del consumatore e la libera concorrenza oltre a quelli della categoria stessa.

Prendiamo ad esempio il caso degli USA nei quali la figura del notaio latino non esiste, è completamente liberalizzata: altri professionisti, come studi di avvocati o addirittura banche possono verificare legalmente la firma per i contratti di qualsiasi tipo (di solito con una commissione del 1% circa).

Ma chi compra un bene ha bisogno anche di tutelarsi da eventuali frodi e vizi di forma, cosa che il notaio latino garantisce analizzando il contratto e la disponibilità dei beni, mentre in USA si deve ricorrere a servizi di assicurazione esterni alla validazione del contratto.

Alla fine in pratica per comprare un immobile si spende più o meno la stessa cifra della parcella notarile, ma suddivisa tra vari professionisti. Inoltre non essendoci ordini a garanzia della serietà di questi professionisti, la percentuale di controversie post-atto è attestata attorno al 10% contro lo 0,2% dei paesi con notai latini, e ciò produce anche un aumento di costi dello stato per la giustizia civile.

Il notaio insomma svolge un compito importante, la sua incorruttibilità e serietà deve essere quindi in qualche modo garantita. Vi fidereste dell’incorruttibilità di un notaio low cost, o forse, da questo punto di vista, è meglio affidarsi ad uno stabile, radicato, ed invidiato notaio?

Un mercato senza notai è un mercato selvaggio, abolirli o indebolirli è la deregulation più maestosa che si possa immaginare, d’altronde, se vogliamo prendere esempio dalla Germania, facciamolo anche in questo: lì notai sono molto più severi dei nostri, hanno un tariffario sorvegliato dall’ordine che qui si vorrebbe abolire; solitamente hanno a disposizione staff tecnici per l’apertura di dossier sugli atti di cui si occupano di garantire la validità, e l’acceso alla casta dei notai è protetto da barriere più rigide delle nostre. Richiede infatti, dopo gli studi e l’esame di stato, un periodo dì formazione molto rigido, della durata minima di 3 anni.

In tutto ciò le tariffe notarili del paese da cui stiamo prendendo “ordini” sono più alte o assimilabili a quelle dei notai italiani: l’onorario di un notaio tedesco per l’acquisto di un immobile si attesta sul 1,5% -2,5% del valore dell’ immobile. Ad esempio su un immobile del valore di 150.000 euro si potrebbe arrivare ad un onorario del notaio di 3.500 euro (2,5%), mentre in Italia il massimo per un immobile di egual valore è fissato a 3.396 Euro compreso iva; il resto, che si paga dal notaio sono tasse, quali l’imposta di registro, che nel caso preso ad esempio sarebbe di 4.500 Euro.

Ma ritorniamo al punto: perché la Germania tiene al notaio? Evidentemente il cittadino tedesco è protetto dai soprusi e dalle scalate, in assenza di un notaio affidabile ed incorruttibile infatti, in un mercato selvaggiamente libero come quello USA, è più facile che chi abbia più potere pecuniario ottenga garanzie a discapito di chi per risparmiare non si permette il lusso dell’acquisto di determinati servizi.

Insomma una spesa obbligatoria a volte può essere una garanzia per il consumatore, non a caso i notai tedeschi richiedono obbligatoriamente la comprensione della lingua tedesca ad entrambe le parti, e quando questa è mancante costringono la parte carente ad acquistare anche il servizio di un interprete.

Deregulation santificata: crisi assicurata!

Quasi tutti gli economisti (anche l’On. Monti da Fazio) sono d’accordo nell’ammettere che l’origine della crisi che stiamo vivendo è stata l’eccessiva deregulation applicata al settore finanziario negli ultimi decenni; deregulation tradottasi in assenza di controllo gli operatori: un'assenza di supervisione che ha reso la quantificazione del rischio globale nell’economia e la comprensione della sua distribuzione in capo a diversi soggetti troppo complessa e il mercato troppo speculativo.

Ma studiare a memoria argomenti complessi fa male. Fa perdere la capacità di assibilare le lezioni in maniera logica: la capacità di rielaborare i concetti ed applicarli a contesti diversi da quello nel quale sono stati appresi, insomma quella capacità che gli antichi maestri definivano saggezza.

Oggi i sedicenti saggi ci propinano proprio una deregulation dell’economia reale quale cura a tutti i mali: vogliono applicare il concetto di deregulation ed indebolimento delle authority di controllo anche all’economia, lo stesso concetto che accusano di essere stato complice della crisi di sistema dell’alta finanza.

Su una cosa Berlusconi aveva sicuramente ragione: i ristoranti erano pieni. La domanda e l’offerta dell'economia reale, nel nostro paese e nella cività occidentale, si equilibrano in maniera tuttosommato armoniosa, fanno da testimoni i SUV che ingorgano le strade delle nostre città o i telefonini di ultima generazione che abbiamo comprato ai nostri figli e buttato dopo sei mesi; figli che talvolta sono stati definiti dal nostro governo stesso dei bamboccioni, ennesima riprova di un economia reale immersa nel lusso e nel benessere. Potersi permettere di mantenere un figlio venticinquenne all’università infatti è un indice di lusso non alla portata di tutte le nazioni con un economia in crisi.

Eppure ci vien detto che ora dobbiamo cambiare, che la colpa di questo malessere (che sinora abbiamo solo percepito attraverso il terrorismo mediatico, e per fortuna non ancora realmente) è da ricercarsi nelle corporazioni e nei privilegi dei commercianti e dei professionisti che dobbiamo odiare e perseguitare, e che devono odiarsi tra loro stessi (su questo si che c’è saggezza: divide et impera).

Quello che ci aspetta ora invece - e ce lo stanno facendo capire in tutti i modi - è una vita da terzo mondo, nell'austerità. Questa volta non scherzano, è inutile che speriate che pagherà un altro per voi, pagherete voi, e anche l'altro. 

Ma siamo proprio sicuri di voler cambiare frettolosamente un sistema che funziona bene, grazie a meccanismi consolidati nei secoli e nelle tradizioni? Sì, anche nelle tradizioni, ad esempio il “non mangiar carne il venerdì” o il “santificare le feste” è stato per secoli uno degli strumenti di regolamentazione del commercio al dettaglio più potente e consolidato.

Corporazioni, ordini e regole, a volte sono garanzie per il consumatore e la libertà di impresa, oltre a quello che abbiamo visto per i notai infatti, un'altra garanzia che gli ordini apportano alla libera concorrenza è quella di essere un organismo per il controllo della concorrenza sleale: un'authority anti-dumping.

Per dumping si intende quella strategia secondo la quale una grande impresa o un cartello si appresta ad aggredire la concorrenza proponendo dei prezzi incredibilmente bassi e offerte molto convenienti (talvolta anche permettendosi di andare in perdita) causandone la perdita di clienti (e per i più piccoli ciò può voler dire fallimento) per poi aumentare nuovamente i prezzi una volta sbaragliata la concorrenza e assunto un livello di concentrazione assimilabile a ciò che il liberista vuol combattere: il monopolio.

In pratica è un investimento fatto per guadagnare in futuro senza il disturbo della concorrenza. Ed in questo periodo i cui la domanda è ridotta all’osso con la paura degli Italiani per i propri risparmi ai massimi livelli, è facile che tutti cadano in offerte promozionali a prezzi sleali, lasciando ancor più scoperti (già sono in crisi) i piccoli ed onesti commercianti (del)“made in Italy”.

Quella che ha la peggio nella deregulation selvaggia è infatti solo la piccola concorrenza, che non può utilizzare gli stessi strumenti aggressivi di chi può permetterselo. Ad esempio de-regolamentare gli orari di chiusura obbligatori per i negozi come si sta facendo può sembrare un vantaggio per i consumatori, ma si tratta solo di un vantaggio pratico per un consumatore/lavoratore costretto a lavorare 12 ore al giorno in un mercato del lavoro anch’esso sempre più selvaggio e competitivo, non di certo in un abbassamento dei prezzi, dato che i piccoli commercianti a gestione familiare non potranno certo permettersi di assumere nuovo personale per applicare una turnazione che le grandi catene di distribuzione possono facilmente allestire, soprattutto in un paese in cui le tasse sul lavoro e le spese previdenziali sono le più alte del mondo.

Assumere ed ingrandirsi non è un investimento alla portata di tutti i piccoli esercenti, ma forse più praticabile per chi ha più sedi e forza lavoro sparsi per il mondo o semplicemente più capitale e più credito. Di certo però le imprese italiane sono in ogni modo svantaggiate, si osservi il seguente grafico:


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(Dati 2011 non ancora aggiornati alla manovra di aumento delle tasse recentemente varata dal governo fonte qui, pag. 28)
 

Si vuol davvero costringere i piccoli commercianti a ridurre all’osso la propria vita privata e a fare salti mortali economici per stare aperti più ore possibili al giorno per fargli provare a competere da gladiatore stremato in un’arena dei leoni sciolti?

L’Italiano medio, il dipendente, lo accetta ed anzi, forse ne gode, perché sa che anche lui sarà costretto dalla crisi a lavorare per più ore al giorno e con meno potere d’acquisto e un po’ di cruda sofferenza finalmente anche al “privilegiato commerciante” lo fa sentire meglio, lo fa sentire migliore, gli fa sentire che tutti stanno pagando quello che non ha capito bene perché sta pagando, ma se lo pagano tutti è normale.

Invito queste persone a pensare semplicemente a questo: persino le banche, che ora, forse, dovrebbero lavorare più sodo di tutti noi data la difficoltà in cui si trovano e gli errori commessi, che dovrebbero dare il buon esempio dato che stanno influendo -e non poco- sulla legislazione europea e nazionale, ebbene proprio le banche scelgono e sceglieranno invece di mantenere i loro invidiabili eridottissimi orari di apertura e di rispettare rigorosamente i tradizionali giorni di stop totale: sabato e domenica.

A conferma del fatto che non hanno bisogno né voglia di concorrenza. Ferme anche per i bonifici elettronici, imponendo i tempi dei pagamenti di un mercato che invece deve spingere al massimo. A riflettere bene stiamo davvero pagando solo noi, dunque forse - a voler pensar bene - dovremmo dedurre che la colpa è solo nostra, non delle banche. Dovremmo informarci di più dato che la legge non ammette ignoranza...

 

Concentrare e chiamarlo liberismo

La definizione di un prezzo minimo per una tipologia di prodotto è storicamente uno dei principali meccanismi anti-dumping, così come i periodi in cui e consentito o meno mettere i saldi. Oppure davvero siete cosìcomplottisti da pensare che i saldi fossero vietati per legge solo perché lo stato voleva farci soffrire? Il saldo è una pratica che il piccolo commerciante può applicare solo in caso di invenduto a fine stagione, dato che riduce di molto il suo margine di guadagno, e sulla piccola scala della sua economia, il saldo perenne, non sarebbe sostenibile.

Ma quando fallisce nell’oligopolio che rimane, come abbiamo visto non vi è altrettanto spirito di distruzione reciproca, quindi ciò a lungo termine non si traduce in un vantaggio per i consumatori. Voglio dire: avremo i saldi perenni, ma i prezzi saliranno o più probabilmente il nostro potere d’acquisto scenderà.

Ebbene in questa liberalizzazione che cancella i due più importanti meccanismi anti dumping italiani è previsto un meccanismo assimilabile che eviti il formarsi di oligopoli? No, al contrario: sono previste agevolazioni che incitano alla fusione di più aziende concorrenti.

Ad esempio all'articolo 18 della legge 300 del 1970 viene aggiunto il comma 1 bis, che recita: "In caso di incorporazione o di fusione di due o più imprese che occupano alle proprie dipendenze alla data del 31 gennaio 2012 un numero di prestatori d'opera pari o inferiori a quindici, il numero di prestatori d'opera di cui al comma precedente è elevato a cinquanta".

In pratica, si sollevano le piccole imprese con più di 15 dipendenti dall’obbligo di reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato, portando il limite da 15 a 50, e facendo sì che questo vantaggio sia ottenibile solo in caso di fusione di due o più piccole imprese.

Tralasciando la questione dei lavoratori, ed analizzando il fatto da un punto di vista meramente liberista e liberale, con questa modifica viene incentivata la incorporazione o la fusione di imprese, il che non è propriamente un valore accettabile dato che aumenta la concentrazione e diminuisce il livello di concorrenza, ed è lo stato ad intervenire a favore di ciò.

Tralasciamo anche i ridicoli ma realistici risvolti di questa legge, qualora non venisse corredata di regole per prevenire comportamenti “all’Italiana”, quali ad esempio fusioni ad arte tra aziende di 49 dipendenti ed Srl unipersonali, fatte solo per evitare un reintegro di lavoratori ingiustamente licenziati.


Saldi di stivali alle potenze estere

Le regole poi servivano anche per proteggere la svendita del nostro mercato e della nostra forza lavoro a potenze economiche estere, cosa che dal punto di vista dei grandi interessi finanziari creerebbe competitivà internazionale per il paese, ma di certo non benessere per la classe media.

Se si volesse un esempio di ciò, si studi un po’ di storia recente dell’Argentina, sarà possibile fare molte analogie tra le liberalizzazioni e deregulation fatte da Carlos Memem nel 1989, che furono in mia opinione molto simili a quelle in essere e portarono al disatro sociale ed economico che abbiamo conosciuto nel 2000:

La drammatica situazione dell'economia ha favorito il rivitalizzarsi del populismo e ha portato all'elezione di Carlos Menem.
Il nuovo Presidente Menem adotta misure economiche di emergenza: mette in atto un piano di austerità economica con vari interventi di privatizzazione delle aziende pubbliche, tagli alle spese sociali, deregulation in diversi settori e puntando anche sull'arrivo di capitali stranieri. Menem dimostrò da subito un'incredibile docilità nei confronti dei diktat del FMI e degli Usa, e si lanciò in un politica decisamente NEOLIBERISTA. L'obiettivo della sua politica era privatizzare il più possibile per eliminare la spesa pubblica e conseguentemente per estinguere il debito estero.

Egli riuscì a riportare l'inflazione a livelli impensabili pochi anni prima.


Ma le riforme ebbero però pesanti costi sociali : aumento della disoccupazione e della povertà, deficit della bilancia commerciale.
Dal 1995 in poi si è parlato di "Miracolo Argentino", di "tigre economica sudamericana", di "mercato emergente senza controindicazioni" in riferimento alla apparente rinascita economica dell'Argentina . Ma l' economia liberista adottata, completamente in mano al capitale straniero privato, fece pagare il suo costo soprattutto alle classi lavoratrici: licenziamenti facili, taglio dei sussidi economici e della spesa sociale. La massa dei poveri aumentò esponenzialmente cancellando la classe media. I dieci anni di governo menemista, infatti, sono stati contrassegnati da livelli record di produzione e di crescita economica, ma anche da un raddoppiamento del debito estero, dalla svendita dell'infrastruttura del paese e da una corruzione generalizzata

(Fonte:http://www.argentina.it/storia_argentina/argentina_cronologia.html, per approfondire ancora sulla questione argentina consigliamo anche la lettura di http://www.quinterna.org/Rivista/07/fallimento_argentino.htm dove si possono notare anche le analogie con l'euro e l'adozione del dollaro come moneta riserva da parte dell'Argentina, cosa che porto all'impossibilità di stampare moneta per inflazionare e favorire l'export, fatto che mise in crisi di competitività l'export in un paese che prima lo aveva fiorente )

Il lavoratore dipendente Italiano è già in crisi perché la propria azienda è esposta alla concorrenza dei mercati emergenti e deve competervi, e per competere deve poter ridurre il costo del lavoro. L’autonomo invece, proprio grazie a regole ed ordini, è protetto da questa concorrenza internazionale e se la cava discretamente. E’ giusto ora abolire questa protezione solo per mettere questi individui alla pari con i dipendenti?

La cura sta in un equità verso condizioni peggiori o in un equità di investimenti da fare per il miglioramento? Qui si parla tanto di non demonizzare la ricchezza, ma sembra che il discorso valga solo per quella estrema, dato che invece si demonizza un commerciante, un tassista o un gestore di pompa che vive discretamente, grazie al merito, ai risparmi accumulati in una precedente esperienza dipendente, e al coraggio delle sue rischiose scelte imprenditoriali e di vita. Mantenere una pressione fiscale così alta rispetto al mercato globale mentre si liberalizza tutto equivale a condannarli a morte a favore delle multinazionali straniere. Insomma invece di aumentare il numero dei concorrenti lo si diminuirà drasticamente.

tasse in italia vs. resto del mondo: siamo campioni indiscussiIn Italia abbiamo una tassazione molto più alta della media mondiale ed europea

(Dati 2011 non ancora aggiornati alla manovra di aumento delle tasse recentemente varata dal governo fonte:http://www.pwc.com/en_ZM/zm/pdf/paying-taxes-2011.pdf pag. 28)
 

Mors tua vita mea?

I piccoli imprenditori locali falliranno, lo sappiamo tutti. Poco male, al centro commerciale si risparmierà, vero? A parte il fatto che questa tesi è confutabile anche nella situazione attuale, dato che fare la spesa di tutti i giorni al supermercato del centro commerciale non è di certo conveniente (provare per credere), va considerato anche il fatto che quando falliscono o sono assenti i piccoli concorrenti, i grandi rimasti invece che farsi la guerra al prezzo più basso, sovente finiscono per creare una concentrazione, un cartello, oppure finiscono in una situazione di perenne tentativo di dumping reciproco, come quelli che possiamo vedere nelle offerte e negli sconti fuori listino che compagnie di telecomunicazioni ed energia - di recente liberalizzazione nel nostro paese - fanno ai clienti dei rivali mediante marketing One-To-One, ad esempio contattandoli per proporre, con offerte vantaggiose solo per un periodo limitato di tempo, il passaggio ad un altro operatore.

A tutti noi saranno capitate offerte del genere, e la prima volta che le abbiamo ricevute potrebbe esserci capitato di pensare “finalmente, la liberalizzazione funziona! C’è concorrenza!” ma alla fine ci siamo resi conto che è stato solo un susseguirsi di rubarsi clienti tra grandi operatori, con un risultato di ottenere ben pochi vantaggi sul prezzo finale del servizio al consumatore medio, dato che i costi per telecomunicazioni ed energia in Italia sono tra i più alti d’Europa.

Aziende in situazione di perenne dumping reciproco, sono infatti costrette a rifarsi dei costi di queste campagne aggressive caricando i prezzi dei servizi essenziali: basti pensare ai costi di quei servizi ormai obsoleti ma ridicolmente tenuti a prezzi altissimi come la chiamata vocale, o addirittura l’SMS, eh si…Spendere 10 centesimi per inviare 256 caratteri su una rete informatica, nell’era della banda larga, è una barzelletta incompresa.

Insomma una concorrenza selvaggia a volte ostacola addirittura il progresso e l’innovazione che dovrebbe promuovere: si pensi ancora a come le compagnie telefoniche facciano di tutto per rallentare l’avvento di nuove tecnologie quali la chiamata vocale via internet mantenendo altissime le tariffe per l’internet mobile e limitando, non certo per motivi di fattibilità tecnologica, la banda usufruibile.

E’ come se vigesse un tacito accordo per cui tra grandi, si consente a tutti di massimizzare il profitto sulla tecnologia in asset prima di adeguarsi alle nuove, ed il fatto che nessuna di esse faccia prima delle altre il balzo necessario ad introdurre una semplice innovazione - il che sarebbe vera concorrenza vantaggiosa per il consumatore - è a tutti gli effetti indice dell’esistenza di cartelli creatosi nella liberalizzazione stessa, cartelli magari legali e impliciti, dettati solo dall’esigenza di competere in un regime di liberalizzazione troppo deregolamentato, troppo privo di quelle regole che salvaguardano il deragliamento della libera concorrenza verso un unico insieme di grandi che differiscono solo per il logo e l’attrice utilizzata per lo spot pubblicitario.

C’è da dire certo che anche un eccesso di regole e barriere impedisce le innovazioni. Di certo anche gli ordini professionali dovrebbero essere più flessibili in tal senso ed aggiornare più frequentemente le loro regole, ma devono mantenere quelle regole che salvano i piccoli imprenditori dalla precarizzazione e dal fallimento dovuto a concorrenza sleale. Invece pare proprio che i piccoli imprenditori vengano sempre più penalizzati dagli aumenti delle tasse, da liberalizzazioni sempre parziali o poco accessibili per loro.

In tal senso è proprio lo stato a rappresentare la barriera più grande per l’ingresso di nuovi piccoli imprenditori e a rappresentare il più grande alleato degli interessi delle grandi compagnie (es. i costi elevatissimi ed il numero chiuso delle licenze concesse per l’implementazione delle reti UMTS hanno impedito la nascita di piccoli operatori Internet Mobile che avrebbero sicuramente fatto una vera concorrenza dopo la liberalizzazione del settore).

C’è infatti da riconoscere che la libera concorrenza è un enorme vantaggio per l’innovazione ed i prezzi dei servizi, ma come dicevo, la liberalizzazione è una cosa complessa, e va studiata a fondo per garantire che sia davvero accessibile a tutti e non solo a pochi grandi.

I piccoli imprenditori sono infatti una presenza essenziale per una vera libera concorrenza ed è proprio da essi che viene l’innovazione: Steve Jobs ad esempio partì in un garage, senza molti fondi iniziò a vendere i primi personal computer assemblati con pezzi presi in conto vendita, e solo grazie al suo costante coraggio nel combattere i cartelli che riuscì a spingere sul mercato prodotti innovativi e a creare nuovi mercati, non senza le reazioni dei cartelli che per anni cercarono di affossarlo (ad esempio le partnership di Microsoft con i produttori hardware per pre-installare il sistema operativo Windows su tutto il venduto). Ma lui ebbe sempre il coraggio di introdurre sul mercato tecnologie innovative prima dell’esaurimento degli stock di quelle obsolete, ebbe sempre lo spirito del piccolo imprenditore che rischia tutto mettendosi in gioco.

E’ anche grazie a chi aggredisce il trust come lui che anche gli altri grandi hanno cominciato a produrre smartphone a costi contenuti (tecnologia che era già pronta da anni, ma i grandi continuavano a trarre profitto dalla vendita della tecnologia in stock).

Quindi c’è da riconoscere che la libera concorrenza è un valore da promuovere, ma gli ostacoli ad essa non sono certo rappresentati dai piccoli imprenditori o professionisti, che proprio per le loro dimensioni modeste hanno meno investimento da difendere e più propensione all’innovazione. A conferma di ciò anche il continuo acquisto di piccole startup da parte delle grandi aziende per comprare nuove idee, come youtube e android che sono solo alcuni esempi di grandi innovazioni nate dal piccolo.

Ma in Italia ciò non si è mai verificato, e la barriera per questi innovatori non è mai stata il non poter entrare in un settore statico e non evolvibile (quali notai, farmacie ecc.) ma quelle barriere che non gli permettono di potersi inventare nuovi mercati con poche risorse. In primis queste barriere sono la burocrazia complessa e le tasse elevate: ad esempio in Italia non è chiaro a quale tipo di impresa deve aprire uno sviluppatore che voglia vendere delle applicazioni sul Market Android né in che modo egli possa fatturarle regolarmente. Dovrà sicuramente dotarsi di tempo o personale da dedicare alla contabilità per farlo, e sarà quindi sfavorito rispetto ad una grande azienda dotata del personale per occuparsi di tali questioni.

Steve Jobs invece, nel suo garage, aveva dalla sua anche una libertà fiscale estrema: fare impresa era accessibile a costi contenutissimi. Con questo voglio dire che il primo passo se si vuole ottenere una vera libera concorrenza produttiva è la riduzione delle tasse.

Senza di questo è impensabile che la liberalizzazione risulti vantaggiosa e produttiva, dato che la barriera all’accesso sarebbe di tipo economico.

In Italia stiamo liberalizzando subito dopo aver aumentato la pressione fiscale sulle imprese (tasse, costi previdenziali e l’IVA) ed aver tagliato l’accesso a regimi fiscali agevolati (nel nuovo regime dei minimi rientreranno solo il 5% degli attuali aventi diritto) e parallelamente congelando il mercato del credito bancario, anche grazie al divieto delle banche di fornire assicurazioni sui mutui, che sebbene possa sembrare una regola anti-trust, di contro potrebbe finire per aumentare l’insicurezza delle banche e quindi i requisiti per l’accesso al credito.

Se non si abbassano le tasse e si fanno respirare i piccoli, questa sarà una liberalizzazione a favore della crescita di poche e protettissime macro-compagnie a discapito della reale libra concorrenza (fallimento dei piccoli). D’altronde a tali fenomeni di trasformazione della libera concorrenza in grandi concentrazioni sotto deregulation, fallimento di piccole e medie imprese in favore di grandi colossi, si assistette già dai primi del novecento, nelle grandi crisi precedenti le grandi guerre, saggi storici ne sono testimoni.


Liberalizzare per produrre nuovi introiti per lo stato e lavoro per gli Italiani. Siamo sicuri?

E’ discutibile anche che questa liberalizzazione senza agevolazioni fiscali porti nuovi introiti alle casse dello stato. Se è vero infatti che l’evasione fiscale è il più grande nemico delle piccole e medie imprese, e che combattendola si elimina proprio una fonte di concorrenza sleale, è anche vero che, in un mercato globalizzato come quello nel quale viviamo, non può esserci una lotta all’evasione che si traduca in maggiori introiti per lo stato se non si abbassa radicalmente la pressione fiscale.

Ancor meno ci può essere maggiore introito per lo stato se si liberalizzano le licenze di vari settori protetti, senza abbassarne la pressione fiscale. Esistono infatti alcuni modi per non pagare le tasse italiane pienamente legali: c’è da ricordare infatti che nella comunità europea un' impresa comunitaria può operare e fatturare in ogni paese.

Quindi liberalizzare senza ridurre le tasse potrebbe voler dire farsi “colonizzare” il mercato da imprese straniere o multinazionali che godono di pressione fiscale molto inferiore per parte della propria forza lavoro, produttiva e d’approvvigionamento delle materie prime, causando quindi una diminuzione di introiti per lo stato italiano stesso.

Già attualmente, in Italia alcuni mercati liberalizzati sono aggrediti con successo da società multinazionali che data la loro natura estroversa possono permettersi vantaggi fiscali derivanti dall’operare su più mercati, e giochi con la forza lavoro, soprattutto quella a progetto ai limiti del legale, di un legale che da questo punto di vista manca di regole ben definite e definibili. E’ chiaro infatti che in assenza di una supervisione efficiente la probabilità che un impresa di grandi dimensioni extranazionali evada il fisco nazionale è maggiore rispetto a quella delle piccole e medie imprese locali, e ciò è persino comprovato da studi americani e inglesi e da fatti ben noti in Italia.

Inoltre per le multinazionali, che hanno anche più potere di pressione sui governi locali, è anche facile fare lobby ed ottenere dai governi locali leggi che addirittura favoriscano e snelliscano la gestione del fisco, quali ad esempio quelle all'articolo 1, comma 429, Legge n. 311/2004,che permette alla grande distribuzione di abolire lo scontrino fiscale e sostituirlo con una comunicazione telematica de “l’ammontare complessivo dei corrispettivi giornalieri delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi “.

Mentre infatti il piccolo commerciante è oppresso dall’attuale campagna mediatica anti evasione della serie “linciaggio per chi non rilascia lo scontrino” la grande distribuzione, fateci caso la prossima volta che andate a far spesa in una grande catena di distribuzione, rilascia scontrini senza validità fiscale (ma al solo fine di garanzia per il prodotto).

Ovviamente non sto dicendo che ciò è indice di evasione da parte di queste multinazionali, ma mi chiedo perché mai i piccoli commercianti non potrebbero usufruire dello stesso vantaggio gestionale della trasmissione telematica dell’ammontare complessivo giornaliero degli introiti? Quale garanzia in più danno i sistemi informatici privati non controllati delle grandi catene rispetto a quelli che potrebbe installare, magari con una legge più chiara e un dispositivo fornito dallo stato qualsiasi commerciante? Perché avvantaggiare solo il grande? Perché dar fiducia solo al grande? Perché non fare anche un blitz di controlli ai sistemi informatici di invio telematico al fisco delle grandi catene? La questione è poco trasparente e aggiunge solo confusione, complessità ed odio sociale per i piccoli imprenditori.

Ma a parte queste ipotesi, i vantaggi dati dallo stato ai grandi sono confermati anche da uno studio di bankitalia, questa volta riguardante la possibilità di ottenere incentivi per le imprese, che afferma che c’è più probabilità che un’impresa di grandi possa ottenere un prestito agevolato rispetto ad una piccola o media. Paradossale, vero?

Ebbene credo che siano questi i punti su cui intervenire per garantire una vera libera concorrenza in questo paese e non attaccare piccole classi di lavoratori (perché di lavoratori autonomi si tratta) con il rischio di ottenere solo un apertura selvaggia del mercato alla speculazione.
Una svalutazione degli investimenti personali.

I commercianti altri non sono che persone che hanno investito – a volte rischiando tanto personalmente – in un attività autonoma: permettere frettolosamente un aumento esponenziale del numero delle licenze/attività autorizzate porterà ad una svalutazione colossale del valore delle stesse (quindi ad una svalutazione degli investimenti di queste persone).

Una svalutazione colossale perché fatta in un contesto in cui la domanda già sta calando e quindi il numero di licenze attuali è già eccessivo per la scarsità di domanda percepita dai commercianti, perché per fare queste cose servono anni di pianificazione proprio per far si che l’investimento non perda valore bruscamente, invece qui si vuol fare il tutto con urgenza.

Si consideri poi che molte di queste persone, hanno investito nell’attività solo grazie ad un mutuo, e lo stanno ancora pagando, ma è risaputo che svalutare il valore di un bene acquistato con un mutuo porta i contraenti all’insolvenza decisa o forzata: si preferisce infatti perdere il bene che ora vale di meno di quanto è rimasto da pagare, oppure non ce la si fa più a pagare dato che la rendita del bene è diminuita, ciò come sappiamo è proprio quello che è accaduto di recente in America con la crisi del mercato immobiliare delle abitazioni.

Con una deregulation ora sono probabili quindi anche fallimenti di commercianti, che potrebbero anche tradursi in una svalutazione anche del mercato immobiliare del settore commerciale, immaginate infatti cosa potrebbe accadere quando i piccoli commercianti inizieranno a non poter pagare più l’affitto del locale o a volerlo vendere, in un mercato immobiliare che già sta iniziando a risentire di una svalutazione dovuta all’eccesso di offerta di vendita – accentuata anche dalle nuove tasse sulla casa - e dalla minor disponibilità economica degli Italiani?

Da autonomo a dipendente

Ma pensiamo anche al tanto odiato tassista, che è un giovane che di recente ha comprato una licenza da 200.000 euro per iniziare a lavorare in maniera autonoma nella sua città.

Per farlo ha aperto un mutuo fiducioso nel suo ammortamento negli anni, ammortamento che dopo la liberalizzazione probabilmente non arriverà mai nelle sue tasche - nemmeno con la licenza extra gratuita che forse gli verrà offerta dallo stato proprio a compensazione per la perdita, che forse varrà carta straccia - costringendolo così in una situazione di precarietà economica che lo porterà sicuramente a migrare, debiti in spalla, dall’attività di autonomo a quella di dipendente.

Questo avverrà in molti altri settori, e questo tipo di panico ovviamente creerà un eccesso di domanda di lavoro da parte di gente in difficoltà economica che porterà ad un goloso abbassamento dei salari anche nel settore privato, quindi nel relativo e connesso minor introito fiscale statale, sia per quanto riguarda le tasse sul lavoro e i contribuiti previdenziali, che per quanto prodotto dall’effetto indiretto dell’abbassamento dei salari: la riduzione del potere d’acquisto della massa, che potrebbe trascinare davvero l’economia reale in un vortice.

A questo si aggiunga che i prezzi di alcune materie prime sono in aumento per cause globali e che liberalizzare parzialmente settori dai prezzi non pienamente determinabili dal ciclo produttivo e la legge della domanda e dell’offerta, ad esempio i settori dei prodotti derivanti da fonti non rinnovabili, quali carburanti ed energia, non causerà certo una sensibile riduzione del prezzo per il consumatore.

Non si impedirà il raggiungimento dei 2.00 euro al litro consentendo ai gestori di vendere pelouche, non lo si impedirà nemmeno aumentando i punti vendita, quel prezzo arriverà a quel livello per motivi esterni alla speculazione dei benzinai.

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I gestori guadagnano in media 0.036 Eur/litro lordi e subiscono un'imposizione fiscale che si aggira intorno al 40%.

Il margine di guadagno di un benzinaio italiano si aggira attorno ad un massimo di 0,04 euro al litro, indipendentemente dal prezzo auttuale del carburante. La riduzione di questo margine mediante concorrenza non rappresenterà certo un calmiere dei prezzi entusiasmante come lo si è propinato: si pensi infatti a quanto è aumentata la benzina ultimamente e che presto arriverà alla soglia dei 2 euro al litro.

Insomma parliamoci chiaro, quei 4 centesimi al litro non faranno la differenza! Ma visti dal punto di vista dal punto di vista del gestore questi quattro centesimi al litro sono quei 40 euro su ogni 1000 litri di carburante venduto:

Per guadagnare un importo ragionevole, l'impianto dovrebbe vendere almeno 2 milioni di litri all'anno, cosa che in Italia non avviene spesso vista la disposizione della rete vendita. La media nel nostro paese è di 1,5 mln di litri. 

Quindi la maggior parte dei gestori gauadagna 50.000 euro lordi che corrispondono a circa 30.000 netti per il carburante. Da questi bisogna togliere eventuali spese e affitti, e calcolare che ogni scarico va pagato con bonifico e/o assegno (quindi con valuta in media di 3 giorni successivi allo scarico).

Bisogna anche ammortizzare i primi scarichi e calcolare che si richiedono sempre più alte fideiussioni (in media a partire dai 50.000 euro per impianto). Calcolando l'utile, il rischio di impresa e gli investimenti, si può facilmente intuire che gli ultimi a guadagnarci sono proprio i gestori, soprrattutto dai rincari. Esistono anche impianti con alti volumi di vendita che però richiedono investimenti maggiori con conseguente aumento dei rischi.

L'unica parte vantaggiosa per il benzinaio e per il consumatore in questa liberalizzazione sarebbe stata la parziale liberalizzazione del vincolo di compagna per l'acquisto dei carburanti dai parte dei benzinai, cosa che avrebbe introdotto un minimo di concorrenza nella parte importante del mercato, a riprova di ciò il fatto che i pochi gestori no logo autorizzati in Italia possono permettersi di offrire prezzi più economici anche di 10/12 centesimi al litro.

Ma come era prevedibile le grandi compagnie petrolifere hanno ottenuto la rimozione di questa proposta dalla bozza garnatendosi la fedeltà obbligata del gestore e probabilmente anche il non aumento dei gestori no-logo autorizzati, ma anche ben più grandi regali extra per il disturbo ad esempio la possibilità di trivellare fino a 5km dalla costa pagando al fisco italiano solo un ridicolo 4% dei proventi, contro una media mondiale del 60%.

Eh sì, in italia è proprio vero che si fa socialismo e protezione per i superricchi e capitalismo spietato per i poveri.

Ma torniamo al nostro gestore che invece non gode di questi privilegi: fino a quanto potrà spingersi per cercare di non venir sommerso dalla concorrenza? di quanto potrà tagliare il suo pane quotidiano fatto di 4 centesimi lordi per ogni litro venduto? Cosa dovrà fare per affrontare la concorrenza sulle briciole?

Una concorrenza spietata ed inutile per il consumatore che potrebbe però esser letale per chi con questa attività di distribuzione ci vive e non ha certo fondi e/o possibilità topologica di investire in grandi centri commerciali annessi, né tantomeno di guadagnare anche sul petrolio come possono fare le pompe di proprietà delle compagnie.

 Con questo tipo di concorrenza si ridurrà quindi inevitabilmente all'osso il margine di guadagno di questi lavoratori autonomi costringendoli a chiudere battenti e divenire dipendenti di società più grandi.

Che libertà! E’ finita l’epoca dei lavoratori autonomi. E’ finito il sogno italiano dell’“aprire un attività e sistemarsi”, e tempo di divenire tutti dei modesti dipendenti di grandi aziende, che già soffrono della concorrenza internazionale, è quindi tempo anche di abbassare i nostri salari.

Questo ci richiede la competizione globale, questo renderà l’Europa competitiva con la Cina, l'India e le altre economie emergenti! Ma migliorerà il nostro potere d’acquisto? Migliorerà il nostro benessere? O farà comodo solo a chi, nel cuore dell’Europa, è in cerca di questa forza lavoro a basso costo e di nuove "periferie industriali” da sfruttare, e a tal fine sta trasformando con successo il nostro paese, anche inteso come stato,  da autonomo, a dipendente?

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Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.3) 12 febbraio 2012 16:15


    Veramente un articolo lucido e serio che va controcorrente. chissà quanti lo capiranno!

  • Di (---.---.---.11) 21 febbraio 2012 17:12

    Il problema è che tutto questo i nuovi tecnocrati del gov tecnico conoscono come voi queste valutazioni ed allora, come se ne esce? Chi ha ragione? Io sono un lavoratore che per fortuna ha ancora il suo lavoro e non ha la visione d’insieme che potete avere voi ed allora? Chi ha ragione,voi o i politici che appoggiano questo governo? E se è vero quanto voi scrivete e sulla carta sembra di sì, questo non si tradurrà in un boomerang per le compagini politiche che appoggiano questo governo? Veramente, sono disorientato da questa controinformazione perchè non avevo ragionato mai in questi termini interessanti. Saluti

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