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Le scritte sui muri, Liliana Segre, la scuola

Ore 8e 30, mentre mi trovavo in auto per andare a scuola, la fila mi ha fatto volgere lo sguardo sui muri del quartiere di Is Mirrionis (a Cagliari): prima scritta: «unwanted migrants» e al semaforo successivo «via i negri da questa città».

di Daniela Pia

Is Mirrionis il luogo dove ho scelto di lavorare: famigerato per le devianze poste in essere da una minoranza di personaggi e per i frequenti, conseguenti blitz delle forze dell’ordine. Ma anche luogo in cui, dal 1970 al 1975, è stata creata una scuola popolare dei lavoratori, autogestita e autofinanziata, che accompagnò molti adulti sino al conseguimento della licenza media grazie al contributo di 150 giovani insegnanti volontari.

Quartiere che rappresenta una sfida, per chi pensa con orgoglio di essere «una insegnante di strada» dentro mura arraffazzonate nelle quali lavorare per promuovere l’acquisizione di una coscienza civica, di cultura; dove i percorsi di socializzazione e giustizia sociale – di cui la scuola deve farsi promotrice – possano rappresentare l’antidoto alla devianza e alla scarsa considerazione di sè.

Il campanello di allarme mi risuona dentro incessante, da più di un anno. Un anno in cui in un’aula è anche comparsa una svastica. 

Così oggi, 8 novembre, dopo essere entrata in una di quelle aule, ho tralasciato la mia lezione sul teatro, ho tirato su la manica del mio maglione e ho scoperto il braccio.

Settantacinquemilacentonovanta. Non era un tatuaggio. Ho usato il pennarello.

Sono rimasta in silenzio e ho atteso.

«Prof ma è stata in discoteca?».

«No, no, lo dico io, è la sua data di nascita?».

«Dai prof, sono forse le persone morte nei bombardamenti in Siria?».

«Lager» ha poi detto uno.

Nel frattempo avevo silenziato l’unica che aveva capito cosa significasse quel numero: «Liliana Segre» mi avevasussurrato.

Così ho iniziato a leggere la lettera scritta dalla collega Claudia Pepe e pubblicata dall’Huffingtonpost:

«Come faremo noi insegnanti a spiegare ai nostri studenti che Liliana Segre, testimone dell’efferatezza del più feroce nazismo, perseguitata dalle leggi razziali del 1938, sfollata in altri Paesi che non l’accolsero e poi deportata dal binario 21 di Milano per il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove perse il padre e i nonni uccisi dalla follia umana, e da dove si salvò a un soffio dalla morte, che in questa Italia devastata dal razzismo, da un’onda nostalgica di quella destra che ha calpestato tutti i diritti umani, ora deve essere un’altra volta difesa?».

Ho raccontato loro un poco di cose e li ho invitati a essere vigili, e amorevoli affinché in «questa l’Italia che si inchina davanti ai vigliacchi, ai codardi, agli ignoranti» giunga alla senatrice Liliana Segre un segnale, importante, ecumenico, morale: quello che sarà la scuola a farle da scorta, con il libro in mano, senza moschetto. Ce lo ha insegnato lei, questa donna di 89 anni, un esempio di coraggio che, nel suo spendersi nelle scuole d’Italia, ha raccomandato ai nostri studenti e studentesse: «non siate indifferenti, ascoltate la vostra coscienza» e ancora «Anche adesso c’è l’indifferenza. Questa indifferenza è la mia nemica personale». Ricordando: «Io avevo 8 anni e avrei dovuto fare la III elementare. Sentirsi dire che si era stati espulsi è una cosa molto grave. Io chiesi subito: Ma perché? Che cosa ho fatto?».

Spero che sappiano indagare dentro e fuori dalle aule, uomini e donne in divenire, i miei studenti e le mie studentesse su cosa avesse mai fatto la bimba Liliana Segre per meritarsi quel numero e tutto l’orrore che ne derivò.

Spero riescano a chiedersi cosa abbiano fatto quei migranti che sono in città per meritarsi le scritte sui muri che trasudano odio.

Spero sappiano ringraziare, prima o poi, la senatrice Segre per essersi spesa, per tutti noi, per la creazione di una Commissione contro il razzismo e l’antisemitismo, un importante osservatorio per segnalare casi di intolleranza, di istigazione all’odio e alla violenza.

Rimanere indifferenti non è più possibile e se lo dice lei, Liliana Segre, che l’odio ce l’ha stampato sul braccio, forse dovremo ascoltarla.

 

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