Le ricchezze della Chiesa, intoccabili dalla giustizia civile
Dieci anni fa, a Catania, le celebrazioni per la santa patrona Agata facevano una vittima. Come da tradizione, il pesante carro con le reliquie della “santuzza” (la cosiddetta “vara”) fu trainato in salita a forza di braccia da alcuni devoti, ma a un certo punto alcuni di loro persero aderenza con il terreno e caddero, innescando un tragico effetto domino che mandò nel panico la folla. Diverse persone furono travolte nella calca e una di loro, il ventunenne Roberto Calì, sposato e padre di due figli, morì il giorno dopo l’incidente per le gravi lesioni epatiche riportate. All’epoca le autorità civili e religiose auspicarono provvedimenti perché fosse scongiurato il rischio che simili incidenti potessero ripetersi in futuro.
Alla fine del maggio scorso si è concluso il processo di primo grado che vedeva tra gli imputati il comitato per i festeggiamenti, il Ministero dell’Interno e perfino l’arcidiocesi catanese. Tutti condannati. In particolare l’arcidiocesi è stata condannata a risarcire 600.000 euro ai familiari di Calì, cioè due terzi del risarcimento complessivo. Tuttavia i legali dell’arcidiocesi hanno subito presentato richiesta di inibitoria dell’esecutività della sentenza, richiesta accolta dal presidente della Corte d’appello di Catania, in attesa dell’udienza, con la motivazione che “il blocco del patrimonio della Chiesa e delle risorse monetarie comporterebbe l’impossibilità di assolvere alle attività caritatevoli in favore di migliaia di cittadini che giornalmente vengono assistiti”.
Una decisione che stupisce tutti, in particolare i legali della famiglia Calì che lamentano anche il totale disinteresse mostrato dall’arcidiocesi nei confronti dei figli di Calì. Come dire che mentre i cittadini bisognosi di carità sono un pretesto valido per garantire l’immunità per la Chiesa al verdetto, due bambini rimasti orfani di padre in tenera età non necessitano di alcuna carità. E comunque, anche a voler ammettere che il blocco dei beni potrebbe avere conseguenze sugli indigenti assistiti dalla Chiesa, ci saranno pure delle soluzioni intermedie. Di solito il condannato a un risarcimento non viene lasciato completamente privo di risorse per il suo sostentamento, e ci mancherebbe; i suoi beni e le sue entrate vengono solo parzialmente congelati. Insomma, sembra proprio l’ennesimo privilegio accordato alla casta dei casti.
Casti che peraltro non sembrano passarsela affatto male. E non parliamo solo dei cospicui finanziamenti che arrivano ogni anno nella casse dei numerosi enti che fanno capo alla Chiesa romana, e che l’inchiesta Uaar sui costi della Chiesa ha prudenzialmente stimato in oltre 6 miliardi di euro. In questo caso parliamo anche dei patrimoni personali degli alti prelati, oggetto del libro-inchiesta Vaticash di Mario Guarino, che sarebbe piuttosto problematico far passare dall’evangelica “cruna dell’ago”. Sempre che parliamo di un ago di dimensioni normali. Nulla di illecito, chiarisce più volte l’autore, si tratta sì di fortune ma tutte regolarmente dichiarate al fisco e di provenienza non sospetta.
Non lo mettiamo in dubbio, a parte casi come quello di don Coppola, prete condannato per mafia, a cui sono stati sequestrati i beni ma che risulta ancora proprietario, a quasi dieci anni dalla sua morte, di terreni concessi dalle istituzioni. In alcuni casi saranno anche beni di famiglia, ma non si può non notare che tra la scalata ai vertici ecclesiastici e quella a una holding finanziaria non sembra esserci poi tantissima differenza, almeno in termini di profitti. L’unica vera differenza è forse nel fatto che il manager di turno non si sogna minimamente di demonizzare la ricchezza, semmai il contrario, mentre da parte clericale, e soprattutto papale, è un continuo ammonire a non rincorrere fortune e successo economico. È proprio il caso di dire: “da che pulpito…”.
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