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Le parole sono importanti

Avvenire, il quotidiano dei vescovi, con Famiglia Cristiana, il noto settimanale, e altre 190 testate diocesane della Federazione Italiana Stampa Cattolica, hanno lanciato una campagna sociale, patrocinata da Camera e Senato, presentata in pompa magna a Montecitorio da un’entusiasta Laura Boldrini, sull’uso superficiale delle parole, contro quelli insomma che oggi si usa chiamare “hate speech”.

Slogan “Anche le parole possono uccidere”, hashtag #migliorisipuò, agenzia creativa Armando Testa, diffusione prevista in oltre 10.000 fra scuole, parrocchie e oratori, attraverso immagini che sono indubbiamente d’impatto. Pallottole che trapassano il cranio di un “ciccione”, di una “ladra” (rom), di un “negro”, di un “terrorista” (islamico). Forse manca qualcuno, come ha subito fatto notare il senatore pd Sergio Lo Giudice, definendo la campagna “Un invito neanche tanto nascosto all’omofobia, una “campagna di inciviltà”.

In effetti a ben guardare se “frocio” pareva volgare, “contro natura” avrebbe reso comunque l’idea. O, al limite, anche “portatore di diritti immaginari”, per riportare testualmente la felice espressione del Cardinale Ruini, ex presidente Cei. Ma a quanto parrebbe, ci sono parole e parole. E alcune pesano più di altre.

In ogni caso, lo slogan di cui sopra è ripreso pari pari da Bergoglio, che qualche tempo fa nel commentare l’evangelico discorso della montagna ha icasticamente sottolineato come “anche le parole possono uccidere! Pertanto, non solo non bisogna attentare alla vita del prossimo, ma neppure riversare su di lui il veleno dell’ira e colpirlo con la calunnia”. Evidenza che per i cristiani verrebbe indicata da Gesù, ma che in effetti può trovare concorde in base al buon senso e al civile rispetto anche chi credente, e credente cattolico nello specifico, non è.

E infatti se le parole uccidono, spesso lo fanno anche nel nome di Dio; basti pensare a quei paesi, per lo più islamici, Pakistan in testa, nei quali la blasfemia è punita con la morte. Dichiararsi atei o di altra religione può comportare la pena capitale, mentre vilipendio alla dottrina ufficiale è considerato il semplice scetticismo. In altri stati dove va un po’ meglio, detenzione e/o pene corporali.

In Europa? Niente Shari’a o inquisizione di torquemadiana memoria (e ci mancherebbe pure), ma nonostante numerose esortazioni dall’Onu e tanto dal Parlamento che dal Consiglio dell’UE a non penalizzare la blasfemia sulla base dell’articolo 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in molti stati in aggiunta al crimine di bestemmia vi è anche quello di “insulti religiosi” in senso lato (si pensi al caso Pussy Riot).

Se in molti Stati, non solo continentali, il reato non è più applicato da anni o è stata colta l’occasione per trasformarlo in quello di incitamento all’odio (hate speech, insomma) su basi razziali, di orientamento sessuale o di convinzioni religiose, in Italia, seppur depenalizzato, viene perseguito molto più spesso di quanto si possa pensare. A prescindere dai fuorionda televisivi.

Secondo fattispecie prevista quindi dal codice penale all’art. 724, dal 1999 può essere passibile di sole sanzioni amministrative (pene pecuniarie) “chiunque pubblicamente [c.p. 266] bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la divinità o i simboli o le persone venerati” una volta dai fedeli della sola “religione di stato”, ora da intendersi come “religioni” in senso lato. Purché si parli, o meglio si bestemmi, entità trascendente dalla non certa natura, dall’ancor meno certa esistenza. Eppure nessuna tutela per visioni (e persone) non religiose: “gli atei sono zucche vuote”, per citare Vittorio Sgarbi, «La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento “, per citare Giovanni Paolo II, sono frasi tranquillamente pronunciabili. “Dio non esiste” non può circolare neanche sull’autobus.

Con questo, lungi da chi scrive non concordare con la necessità, pur nella libera espressione del pensiero, della costruzione di un linguaggio inclusivo, non colpevolizzante sulla base di supposte deformità dal pensiero e dallo status dominante. Anzi, alle categorie proposte da Avvenire se ne vorrebbero vedere aggiunte altre, discriminate quotidianamente anche se non soprattutto da chi punta il dito contro chi esclude. E proprio per questo si insiste: la tutela va creata e supportata a favore e a difesa di individui, di persone, tutti uguali, tutti dagli stessi diritti fondamentali. Spesso sembra invece più importante “difendere”, qualunque cosa voglia dire, entità sovrannaturali e i suoi collaterali e molto terreni apparati.

Adele Orioli

Questo articolo è stato pubblicato qui

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