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Le parole e il tempo dei siciliani. Passato e futuro

Provate a fare il futuro con un qualsiasi verbo della lingua italiana, traducendolo in siciliano. Vi sarà impossibile. Per riuscirci dovete usare un ausiliare e coniugarlo con un infinito per dare solo l’idea che avete intenzione di fare qualcosa o che qualcosa potrebbe succedere. Un solo esempio: farò.

In siciliano dite: aiu a fari. Tre parole al posto di una come se si facesse fatica a concepire un’azione semplice che deve ancora essere messa in opera. I latini l’avrebbero chiamata perifrastica attiva, e avrebbero usato un participio futuro che per un siciliano è un concetto remoto, improponibile. Una vera e propria complicanza dell’esistenza.

A pensarci bene, però, in siciliano, a differenza dell’italiano, il futuro è inesistente, non per motivi casuali, ma per una ragione di fondo che vedremo tra poco. Questo tempo perde l’efficacia della certezza dell’intenzione e si dissolve in una sorta di dovere, di compito facoltativo. Quindi possiamo dire che esiste secondo una sua particolare torsione linguistica, un suo adeguamento alla condizione di quella popolazione, i siciliani, appunto, che lo hanno trasformato da realtà negativa in risorsa necessaria.

Alla faccia dei comuni studiosi di lingua. Aiu a fari significa devo fare, ma non è farò. Come si vede il futuro si piega ad essere presente, a confondersi con esso. Il senso di questa fusione di tempi è che, sapendo che non è mai certo quello che può essere il futuro, nessuno può impegnarsi a realizzarlo. Può solo, mediante una scelta soggettiva e rischiosa, cercare di realizzarlo ora. Qui e subito. Perciò farò diventa faccio: fazzu. Sempre con la clausola sottintesa: "Se me lo consentono".

Il salto va dall’etica e dall’infinita casistica delle intenzioni, alla certezza delle affermazioni. Le implicazioni hanno una portata ineludibile perché ci conducono al versante dell’esperienza secolare e alle sue varianti per l’avvenire. Perché non è indifferente che per secoli e millenni i siciliani abbiano avuto un vissuto che ha impedito loro di sognare, e ha concesso loro soltanto il desiderio dell’avvenire.

La loro lingua riflette, quindi, un bisogno di autodifesa, ma anche una carenza strutturale, il cui effetto è il particolare modo che il siciliano ha di guardare al passato. Ciò che è appena avvenuto, è, per lui, remoto, cioè rimosso. I siciliani hanno infatti quest’altra caratteristica comportamentale e culturale: quella di cancellare in tempi brevi la memoria. Un modo, tra i più efficaci, per rinnegare una storia passata che li ha privati del diritto al futuro.

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