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Le origini della Guerra Fredda e la nascita del “complesso militar-industriale”

Giacomo Gabellini torna sulle colonne dell’Osservatorio Globalizzazione, con una magistrale ricostruzione dell’inizio della Guerra Fredda, siamo sicuri che così, non la avevate mai letta. Buona lettura!

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Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, divenne palese agli occhi degli strateghi Usa che le necessità connesse alla conduzione del conflitto avevano assorbito una quota ragguardevolissima della forza lavoro statunitense, e che che all’interno di gran parte delle fabbriche operanti in settori civili la produzione era stata orientata a sostegno dello sforzo bellico. Era quindi chiaro che una riconversione dell’economia al tempo di pace avrebbe prodotto un impatto fortissimo sull’occupazione e sull’andamento dell’economia nazionale.

La dimostrazione empirica di ciò la si ebbe nell’immediato dopoguerra, quando la smobilitazione e la contestuale sospensione delle commesse militari fecero aumentare il tasso di disoccupazione del 130% nell’arco di un biennio, deprimendo allo stesso tempo l’indice di produzione dal picco dei 212 punti registrato in corrispondenza del culmine dello sforzo bellico ai 170 punti rilevati del 1948. Nel primo trimestre del 1950, i capitali d’investimento rappresentavano appena l’11% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre le esportazioni diminuirono del 25% tra il marzo del 1949 e il marzo del 1950. Di fronte al precipitare della situazione, l’amministrazione Truman decise di incaricare alcuni esperti del Dipartimento di Stato di elaborare un piano strategico in grado di rilanciare il Paese.

Le conclusioni a cui il gruppo, guidato dall’ex banchiere della Dillon, Read & Co. Paul H. Nitze, giunse dopo un anno di studio furono condensate nel National Security Council raport 68 (Nsc-68), un documento che coniugava le necessità economiche alle aspirazioni egemoniche degli Stati Uniti, individuando in una sorta di “riarmo permanente” la chiave di volta per far ripartire l’economia. Nell’ottica dei redattori del Nsc-68, la prosperità economica statunitense dipendeva dal mantenimento di quel “keynesismo militare” (espressione coniata dall’economista polacco Michał Kalecki) grazie al quale era stata superata la Grande Depressione:

«gli Stati Uniti potrebbero realizzare un aumento sostanziale della produzione e incrementare in tal modo l’assegnazione di risorse allo scopo di accumulare forza economica e militare per sé e per i propri alleati senza subire un calo reale nello standard di vita […]. Con un alto livello di attività economica, gli Usa potrebbero presto ottenere un Pil di 300 miliardi di dollari […]. I progressi in questa direzione avrebbero lo scopo di permettere un accumulo di forza economica e militare degli Stati Uniti e del mondo libero […]. Inoltre, se viene raggiunta una espansione dinamica dell’economia, il necessario accumulo potrebbe essere realizzato senza una diminuzione degli standard di vita, perché le risorse necessarie potrebbero essere ottenute con una parte dell’incremento annuo del Pil».

Ma per convincere l’opinione pubblica a sostenere un simile sforzo occorreva estremizzare il processo di demonizzazione dell’Unione Sovietica, dipingendola come un nemico irriducibile che, «a differenza degli aspiranti all’egemonia del passato […], è animato da un fanatismo profondamente ostile nei nostri confronti […] e dall’ossessione di imporre la sua brutale autorità sul resto del mondo» . Si trattava, in altre parole, di porre fortemente l’accento sulla contrapposizione tra «l’idea di libertà garantita da un sistema di leggi e l’idea di schiavitù imposta dall’oligarchia del Cremlino» . Ciò in ragione del fatto che «la rapida costruzione di un potente apparato politico, economico e militare […] rappresenta l’unica strada coerente con il percorso intrapreso verso il raggiungimento del nostro obiettivo fondamentale. La disarticolazione del disegno del Cremlino richiede che il mondo libero sviluppi un sistema politico-economico efficiente e adotti una vigorosa strategia offensiva contro l’Unione Sovietica. Quest’ultima, di conseguenza, sarà costretta ad innalzare un adeguato scudo militare con cui difendersi».

Oltre a richiedere una risposta di tipo più militare che politico alla presunta minaccia comunista, il Nsc-68 offriva una raffigurazione ancora più irrealistica dell’Unione Sovietica rispetto a quella delineata da George Kennan nei suoi memorandum. L’Urss veniva infatti ritenuta in grado di «invadere l’Europa occidentale con le possibili eccezioni della Scandinavia e della penisola iberica, di dirigersi verso le aree petrolifere del Vicino e Medio Oriente e consolidare le posizioni comuniste in Estremo Oriente; di lanciare sortite aeree contro le isole britanniche e attacchi aeronavali contro le linee di comunicazione delle potenze occidentali nell’Atlantico e nel Pacifico; di attaccare con armi atomiche obiettivi sensibili situati anche in Alaska, Canada e nell’entroterra degli Stati Uniti. In alternativa, tale capacità, combinata ad altre azioni offensive, potrebbe precludere agli alleati la possibilità di impiegare la Gran Bretagna come base effettiva per le proprie operazioni. Allo stesso tempo, è possibile che l’Unione Sovietica si tuteli dalla possibilità che gli alleati perpetrino una operazione anfibia analoga allo sbarco in Normandia rivolta a sospingere l’Armata Rossa all’interno dell’Europa continentale» .

Non tennero conto, i redattori del Nsc-68, delle devastazioni patite dall’Urss durante la guerra, né del processo di smobilitazione militare che Mosca stava portando avanti, né del fatto che Stalin avesse duramente represso le compagini trockijste intenzionate ad “esportare la rivoluzione”. L’assistente del Dipartimento del Tesoro Willard Thorp e il revisore del bilancio William Schaub misero infatti in radicale discussione il contenuto allarmistico del documento, sostenendo che il divario militare tra Usa ed Urss stesse allargandosi e non riducendosi e che Mosca stesse destinando una quota crescente degli investimenti alla ricostruzione. Altri misero in rilievo che la messa a punto della bomba atomica rappresentava, dal punto di vista del Cremlino, l’unica via percorribile per attuare quel ribilanciamento strategico necessario a sventare la minaccia di annientamento rappresentata dall’arsenale nucleare Usa e difendere allo stesso tempo le posizioni acquisite a Teheran e Jalta.

Ma nonostante i rilievi critici, l’amministrazione Truman decise, dietro il forte impulso di Acheson ed Harriman, di conformare immediatamente il proprio operato alle direttive esposte nel documento preparato dalla squadra di Nitze. Fu quindi organizzata una gigantesca campagna propagandistica di cui la crociata anti-comunista portata avanti dal senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy costituì punta di lancia. La “caccia alle streghe” condotta da McCarthy con il sostegno del potentissimo direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover andò rapidamente a consolidare, nell’immaginario collettivo Usa, la raffigurazione ingannevole dell’Unione Sovietica come nemico mortale degli Stati Uniti, al punto che ancora oggi, come rileva Sergio Romano, «esiste nella società politica americana un partito trasversale per cui la Russia è sempre un potenziale nemico. E […] questo partito è particolarmente forte nelle due istituzioni (il Dipartimento di Stato e il Pentagono) da cui dipende in ultima analisi la gestione quotidiana della politica estera degli Stati Uniti».

In tali condizioni, il governo non ebbe alcun problema a realizzare il potenziamento dell’apparato bellico raccomandato dal Nsc-68, che nella fattispecie si materializzò sotto forma di aumento delle spese militari dai 13 miliardi di dollari del 1949 ai 60 miliardi del 1953 (un incremento del 400%). Una simile crescita del bilancio della difesa non poteva essere finanziato soltanto tramite un forte aumento delle tasse a carico dei contribuenti. Il presidente John F. Kennedy lo rese noto con grande candore in un discorso del febbraio 1961, durante il quale riconobbe che il deficit della bilancia dei pagamenti Usa era cresciuto di 18,1 miliardi di dollari tra il gennaio del 1951 e la fine del 1960, ma le riserve auree, lungi dal diminuire correlativamente, erano calate da 22,8 a 17,5 miliardi di dollari. Una sproporzione di non poco conto, la cui origine fu puntualmente rilevata da Jacques Rueff, il celebre economista francese e principale consigliere economico del generale Charles De Gaulle: 

«nel periodo considerato, le banche di emissione dei Paesi creditori avevano creato, come contropartita dei dollari loro dovuti per i deficit statunitensi, le monete nazionali a pagare i titolari di crediti nei confronti degli Stati Uniti, mentre avevano ricollocato circa i due terzi di quegli stessi dollari sul mercato statunitense. In tal modo, tra l’inizio del 1951 e la fine del 1960, avevano aumentato di circa 13 miliardi l’importo delle loro attività estere in dollari. Perciò, a concorrenza di questo importo, il deficit della bilancia dei pagamenti Usa non aveva portato ad alcun regolamento all’estero. Tutto è passato, sul versante monetario, come se non fosse mai esistito».

Ecco spiegato, in parole povere, l‘inghippo che consentì a Truman di sostenere il colossale piano di riarmo necessario a rilanciare l’immagine degli Stati Uniti come “arsenale della democrazia” tratteggiata a suo tempo da Franklin D. Roosevelt senza dissestare le finanze pubbliche. A beneficiarne fu soprattutto una serie di grandi imprese operanti nel settore bellico (essenzialmente Raytheon, General Dynamics, Lockheed Co., Northrop Co., McDonnel-Douglas, United Aircraft, North American Aviation, Ling-Temco-Vought, Boeing e Grumman Aircraft), attorno a cui cominciò a svilupparsi rapidamente un vero e proprio tessuto produttivo composto da centinaia di società minori – attualmente, questo comparto annovera circa 100.000 aziende che impiegano quasi 4 milioni di lavoratori.

L’aspetto più incisivo della vicenda è tuttavia dato dal fatto che la produzione bellica non rappresenta un blocco omogeneo perfettamente distinguibile dal resto delle attività economiche, giacché settori come l’industria elettronica, chimica, automobilistica, informatica e delle telecomunicazioni presentano un carattere per così dire “misto”, sia civile che militare, che rende le varie Ibm, General Electric, AT&T e Monsanto assimilabili o quantomeno integrabili al complesso militar-industriale. Ciò ha concorso a modellare la natura del rapporto instauratosi tra il Pentagono e il complesso militar-industriale; un rapporto che, in nome della necessità di accentrare la direzione strategica dell’apparato tecnico-produttivo, si decise di disciplinare attraverso contratti negoziati anziché mediante offerte di tipo concorrenziale.

A ciò va sommato il fatto che «le maggiori ditte che producono beni militari sono quasi tutte imprese di proprietà privata. Ma il controllo deve essere distinto dalla proprietà. I dirigenti delle società industriali per azioni non possiedono le risorse delle loro ditte; ne hanno solo il controllo. Le ditte dell’industria militare, formalmente private, operano per conto di un cliente unico, senza che ci siano altri clienti potenziali in vista. Questa dipendenza per le vendite rafforza il sistema diretto di controllo della direzione centrale sulle ditte affiliate […]. L’idea del carattere privato delle ditte produttrici di beni militari è una finzione accuratamente intrattenuta che corrisponde ai diritti legali di proprietà, ma non alla realtà del controllo direzionale primario che si esercita a partire dal Pentagono, [tramite anche] la proprietà diretta delle attrezzature produttive essenziali adoperate da alcuni dei maggiori fornitori di prodotti militari» . Non a caso, gli autori del Nsc-68 erano convinti non solo che per conseguire una solida e duratura crescita economica occorresse perpetuare il keynesismo militare adottato in tempo di guerra, ma anche che il sostegno all’industria bellica, incline per sua natura a puntare sull’innovazione, avrebbe assicurato agli Stati Uniti uno sviluppo tecnologico che nessun altro Paese sarebbe stato in grado di eguagliare.

Fu sotto l’amministrazione Kennedy che si verificò il tentativo più consistente di porre formalmente la miriade di imprese impegnate a vario titolo nella produzione bellica sotto l’autorità di un ufficio statale facente capo al Pentagono, il quale avrebbe materialmente dettato tempi e modi dello sviluppo delle capacità militari riducendo le aziende private al rango di mere divisioni subalterne. Il progetto non andò in porto, ma ciò non ha impedito all’industria bellica di imporsi come cuore pulsante dell’economia Usa, in grado di accrescere progressivamente il proprio peso politico attraverso una serie di accorgimenti particolarmente azzeccati. Uno di essi riguarda l’arruolamento nei consigli d’amministrazione (dietro congruo compenso) di generali a riposo ed ex gallonati di vario grado incaricati di condurre attività di lobby grazie alle loro entrature nel Dipartimento della Difesa e alla loro conoscenza approfondita del sistema maturata negli anni di servizio. Si venne così a creare un’alleanza tra potentati economici, apparati politici e alti vertici delle forze armate – le cosiddette “élite del potere”, come le definì Charles Wright Mills – che ha profondamente inciso sulla vita politica, economica e sociale del Paese.

Una delle indicazioni cruciali contenute nel Nsc-68 era quella di esacerbare o creare ex novo situazioni di crisi in giro per il mondo allo scopo deliberato di legittimare il riarmo e “ricacciare indietro” l’Unione Sovietica. Obiettivo, quello di “respingere” l’Urss e “liberare” l’Europa orientale dal giogo di Mosca, che il futuro segretario di Stato John Foster Dulles avrebbe, almeno per un certo periodo, giudicato perseguibile attraverso la dottrina del rollback. Come scrive Gabriel Kolko: 

«dal 1946, unire il Paese nel programma governativo con la presunta minaccia di pericoli internazionali era diventato indispensabile per alimentare il consenso interno verso la politica estera e militare. La ripresa di questo processo avrebbe imposto una tensione massima all’Urss e in tal modo indebolito la sua influenza sui Paesi satelliti, mentre l’amministrazione americana in segreto sostituiva il contenimento della potenza sovietica con una strategia che ne avrebbe infine causato il “ritiro” e la “riduzione” […]. All’inizio del 1950, dunque, il governo americano si accinse a riconfigurare il proprio rapporto con il mondo in un modo che non solo preannunciava crisi, ma addirittura ne aveva bisogno per l’attuazione di un programma segreto di riarmo. Tanto nelle Filippine quanto in Indocina aveva già cominciato ad agire con fiducia, prevedendo un più ampio dispendio di risorse in entrambi i Paesi».

Il “reclutamento” del neonato Stato di Israele, che pochi mesi dopo la proclamazioni unilaterale d’indipendenza si schierò a fianco degli Usa tradendo la malriposta fiducia di Stalin, rappresentò un primo, importante passo nella direzione indicata da Kolko. Le origini di questa cruciale alleanza vanno ricercate in parte nelle complesse dinamiche demografiche ed elettorali statunitensi, ma anche alla necessità di Washington di ricavarsi un avamposto strategico in Medio Oriente, regione che tendeva ad assumere un peso determinante dal punto di vista energetico. Poco importava che il sostegno accordato dall’amministrazione Truman al disegno sionista presentato da David Ben-Gurion e Chaim Weizmann contravvenisse palesemente all’impegno che Roosevelt aveva assunto il 5 aprile 1945 – e che lo stesso Truman aveva rinnovato il 28 ottobre 1946 – di fronte al monarca saudita di non prendere alcuna decisione sulla Palestina in assenza di una consultazione preliminare con ebrei e arabi e tenendo in ogni caso in considerazione gli interessi di questi ultimi. 

Ma la vera occasione d’oro per mettere in pratica le direttive del Nsc-68 si presentò ad appena due mesi dalla consegna dello studio condotto da Nitze e dai suoi collaboratori in corrispondenza della rovente penisola coreana, a cui Acheson non aveva fatto menzione nel suo noto discorso sul “perimetro difensivo” – che a sua volta ricalcava piuttosto fedelmente i rimland di Spykman e Mackinder. Fu infatti proprio lo scoppio del conflitto in Corea a fornire ad Acheson, a Kennan, ad Harriman e agli altri strateghi dell’amministrazione Truman quella “prova inequivocabile” della minaccia mortale che l’alleanza comunista era in grado di portare al “mondo libero”, necessaria a indurre il Congresso ad approvare il Nsc-68 e a mutare radicalmente la percezione dell’Urss in seno all’opinione pubblica statunitense. Poco importava che il governo di Pyongyang avesse denunciato che, «nel solo 1949, l’esercito o la polizia sudcoreani avevano effettuato 2.617 incursioni armate nel nord per compiere omicidi, rapimenti, saccheggi e incendi dolosi, allo scopo di provocare disordini e turbare l’ordine sociale, oltre che per rafforzare la posizione strategica degli stessi invasori». Non fu presa in minima considerazione nemmeno la ricostruzione degli eventi fornita da Pyongyang, secondo la quale nei due giorni precedenti all’offensiva a sud del 38° parallelo, le forze aeree di Seul avevano bombardato e occupato la città nordcoreana di Haeju.

Il conflitto coreano pose tuttavia le basi per una fortissima spinta al riarmo, come testimoniato dal fatto che, al culmine della guerra, gli Usa destinarono alle spese militari il 15% del Pil e trascinarono in questa corsa sia i Paesi membri della Nato, la cui spesa militare complessiva passò dai 38 miliardi di dollari del 1949 ai 108 miliardi del 1952. L’Alleanza Atlantica, che in origine, come dichiarò il suo primo segretario generale Lord Ismay, era nata allo scopo di tenere «the Russians out, the Americans in and the Germans down», fu quindi riadattata al nuovo quadro geopolitico con l’autorizzazione a Berlino di ricostruire la propria industria dell’acciaio (imperniata sulla Ruhr) per metterla a disposizione della produzione bellica statunitense. Anche l’industria giapponese fu integrata, sotto la supervisione dello Scap e del banchiere John D. Rockefeller III, nella struttura produttiva del complesso militar-industriale statunitense onde dotare il governo di Tokyo degli strumenti necessari a fungere da baluardo anti-comunista dell’Asia orientale aggiuntivo a Taiwan, governata con il pugno di ferro da Chiang Kai-Shek. Tutto ciò era stato suggerito dal Nsc-68: 

«un elemento essenziale in un programma per vanificare il disegno del Cremlino è lo sviluppo di un efficiente sistema di collaborazione tra le nazioni libere […]. La capacità degli Usa di sostenere un consolidamento della potenza economica in patria e della potenza militare all’estero non è limitata, come nel caso dell’Unione Sovietica, tanto dalla capacità produttiva, quanto da una corretta allocazione delle risorse. Anche l’Europa occidentale potrebbe permettersi di assegnare una percentuale notevolmente maggiore delle proprie risorse alla difesa […], specialmente se gli fosse fornita l’assistenza necessaria a soddisfare il suo deficit di dollari».

Si tratta di un punto cruciale. La devastazione in Europa ed Asia provocata dalla guerra e il parallelo potenziamento dell’apparato produttivo statunitense avevano consentito agli Usa di inanellare una serie impressionante di attivi nella bilancia commerciale, denominata in dollari. Così, grazie ai vincoli di Bretton Woods e alla non convertibilità delle monete europee, il “biglietto verde” era divenuto una merce rara benché necessaria a saldare i conti delle importazioni. Il rallentamento del commercio mondiale che ne scaturì costituiva un grosso problema per gli Stati Uniti, che il Nsc-68 proponeva di risolvere “semplicemente” creando dollari – che grazie al nuovo sistema monetario internazionale erano “tanto buoni quanto l’oro” – e distribuendoli ai propri alleati-sottoposti europei e giapponese. «La fame di dollari dei Paesi europei, in via di ricostruzione, sembrava non finisse mai. E gli Stati Uniti non si risparmiarono certo nel soddisfare l’appetito dei loro partner. La possibilità di fabbricare dollari destinati a rimanere confinati nelle riserve monetarie europee e asiatiche fu ampiamente sfruttata dagli Usa, in particolare per “reggere” l’impatto della Guerra Fredda […]. La Guerra di Corea fu la prova del nove».

Sul fronte squisitamente militare, Eisenhower approfittò della situazione economicamente favorevole per stanziare una quota crescente di risorse al potenziamento della marina militare, che fu arricchita da quasi 180 nuove navi da guerra e dalle portaerei classe Forrestal, e ai settori cruciali di ricerca e sviluppo. A occuparsi di gestire e coordinare gli sforzi in questo senso fu la Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa), un organismo facente capo al Pentagono e diretto da Roy Johnson della General Electric con l’incarico di colmare il divario tecnico-scientifico con l’Unione Sovietica palesatosi grazie al lancio (1957) del satellite Sputnik e all’introduzione del formidabile bombardiere strategico Tupolev-95.

Ad appoggiarne l’instaurazione era stato Nelson Rockefeller, il quale convinse Eisenhower a “silurare” il segretario alla Difesa Charlie E. Wilson e rimpiazzarlo con il ben più “malleabile” Neil H. McElroy, presidente della multinazionale Procter & Gamble. Nell’arco di pochi mesi, la Darpa elaborò una rete di ricerca e condivisione delle nozioni acquisite a maglie strettissime, composta da decine di università, start-up e laboratori. Grazie all’attività svolta da tali soggetti, stimolata dall’assegnazione di commesse pubbliche alle facoltà scientifiche e dall’introduzione di una serie di agevolazioni fiscali (incentivi e sgravi) alle imprese coinvolte, si sono così venute a creare condizioni di lavoro particolarmente favorevoli al conseguimento degli obiettivi fissati dalla Darpa. A ciò si deve l’entrata in servizio dei missili balistici a medio (Intermediate Range Ballistic Missile, Irbm) e lungo (Intercontinental Ballistic Missile, Icbm) raggio e dei sottomarini a propulsione nucleare armabili con missili balistici Polaris, antesignani dei più recenti Poseidon e Trident.

Da un punto di vista strategico, invece, il riorientamento indotto dall’esperienza bellica coreana è efficacemente rilevato dallo storico Bruce Cummings:

«l’impatto devastante della sconfitta in Corea del Nord avrebbe posto dei limiti decisivi al rollback per molti anni a venire. Il contenimento era ora la vera impostazione del governo di Eisenhower, una scelta di gran lunga preferibile per le élite centriste che allora controllavano la politica estera. John Foster Dulles, padre putativo della dottrina della liberazione e del rollback, svolse un ruolo cruciale nell’introduzione di questi limiti. Ben prima della ribellione ungherese del 1956 (di solito considerata l’evento che ha messo fine alle sue fantasie sul rollback), in alcune riunioni segrete aveva severamente criticato le dottrine di “guerra preventiva” e gli schemi di liberazione. Il tentativo di allontanare i Paesi satelliti dall’Urss, sosteneva, “trascinerebbe gli Stati Uniti in una guerra generale”. In seguito, Dulles avrebbe cercato un luogo in cui poter realizzare un “mini-rollback“, attuabile in base al fatto di entrarne e uscirne indenni e senza provocare reazioni cinesi o russe».

Si trattava, in altre parole, di un adattamento della strategia enunciata dall’ex analista dell’Oss James Burhnam, che riadattando i contenuti precedentemente espressi in un documento preparato nel 1944 per conto della delegazione statunitense che si accingeva a prendere parte alla conferenza di Jalta, giunse alla conclusione che «gli Stati Uniti non sono in grado di imporsi, entro un lasso di tempo ridotto, alla guida di un ordine politico mondiale facendo semplicemente ricorso a continui appelli pubblici alla razionalità […]. Il potere deve essere concentrato nelle nostre mani e noi dovremmo essere disposti ad usarlo, sia in maniera indiretta attraverso sanzioni volte a paralizzare l’economia dei Paesi ostili, sia nella forma diretta degli interventi militari». In ottemperanza alla nuova dottrina strategica, la Cia ottenne l’autorizzazione ad assicurarsi una capacità d’azione esecutiva in tutti i Paesi neutrali ritenuti esposti al rischio di slittare sotto la sfera egemonica di Mosca.

Foto: Balkan Photos/Flickr

 
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