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Le ideologie religiose e la relativizzazione di crimini e diritti

Parlare di relativizzazione in riferimento alle religioni sembra un po’ un controsenso. Una qualsiasi religione, in sé, non può relativizzare nulla perché la sua filosofia e la sua dottrina si fondano su verità ritenute assolute, su dogmi. Di fatto le religioni sono assolutiste, anche se questa definizione non viene mai usata sia perché fortemente connotata in senso negativo, e sia perché il suo significato principale riguarda la forma dello Stato. Uscendo però dall’ambito proprio di ogni ideologia religiosa per osservare il mondo nel suo insieme, ecco che tutto diventa relativo perché semplicemente nulla è realmente universale. Ciò che è vero per una religione non lo è per l’altra, pochi principi possono essere applicati a più ideologie e quasi nessuno si applica a tutte. O quantomeno non si applica allo stesso modo.

È evidente che nel corso dei secoli molte regole e prescrizioni arcaiche sono state superate, i diritti degli uomini si sono pian piano fatti spazio tra quelli delle comunità e delle fedi. Tuttavia, soprattutto in situazioni di conflitto, l’interpretazione più o meno strumentale e più o meno letterale di sacre scritture torna comoda per giustificare i crimini più efferati. Là dove le milizie dell’Isis combattono per affermare la supremazia della loro visione dell’islam sulle altre, oltre che sul mondo intero, perfino lo stupro diventa legittimo. Un lungo articolo apparso sul New York Times parla di una vera e propria “teologia dello stupro”, posta in essere al momento principalmente contro la minoranza religiosa degli yazidi, ma potenzialmente estensibile anche contro cristiani ed ebrei, ai quali la dottrina islamica riserva uno status superiore rispetto agli altri per via del comune riferimento al Vecchio Testamento.

Non solo si uccidono civili indifesi, cosa tristemente “normale” in teatri di guerra, non solo ci si accanisce sulle vittime fino a privarle della propria dignità, ma si giustifica addirittura il tutto in chiave religiosa. La violenza diventa precetto, purché naturalmente venga compiuta secondo rituali e regole prestabilite; una preghiera prima, un’altra dopo e la volontà di Allah è compiuta. A meno che la vittima di turno non sia per sua fortuna incinta, o al limite in menopausa, perché la presenza del ciclo mestruale è condicio sine qua non. Ma fino a un certo punto, perché pare che vi siano perfino delle deroghe per le bambine in età prepuberale ritenute “adeguate” al rapporto sessuale.

Il sistema è stato istituzionalizzato al punto che la compravendita di donne yazidi avviene in appositi mercati, e i relativi contratti vengono registrati nei tribunali islamici. Il sistema di regole è molto dettagliato, vi è anche un’apposita manualistica che spiega, tra le altre cose, l’aderenza di questa forma di schiavismo ai canoni religiosi sulla base di passi del Corano. Per i fondamentalisti islamici gli yazidi sono “adoratori del diavolo”, definizione che dava di loro già Saddam Hussein durante il suo regime, e tanto basta come giustificazione. Una volta affibbiata l’etichetta di disumanità, che neanche a dirlo procede sempre dal più forte al più debole perché viceversa avrebbe ben poco effetto, tutto è permesso, la prevaricazione diventa lecita, oggi in Iraq contro gli yazidi come ieri nella Germania nazista contro gli ebrei. E del resto, nello stesso articolo viene fatto notare che l’uso delle sacre scritture a supporto di questa forma di schiavizzazione ricorda molto lo stesso uso che a suo tempo, nella tratta degli schiavi dall’Africa agli Usa, veniva fatto della Bibbia.

Dal canto loro gli yazidi non sono certo campioni di libertarismo. Parliamo di una piccolissima minoranza religiosa di etnia curda che conta un numero di individui stimato tra 800 mila e due milioni, chiusa all’esterno e con l’ossessione del purismo. Basata su un sistema di caste, rigetta del tutto l’esogamia sia nei confronti dei non yazidi che tra casta e casta, e stigmatizza l’intrattenimento eccessivo di contatti di qualsiasi genere con persone non yazidi, un po’ come accade tra gli amish e probabilmente in forma più ossessiva. A tale scopo, per preservare cioè l’integrità culturale, l’insegnamento di lettura e scrittura è generalmente deprecato per la gente comune.

Naturalmente tutte queste regole, queste limitazioni, hanno a che fare con le persone della comunità yazidi e con i loro diritti, non si traducono automaticamente in minacce per i non yazidi. Nulla a che vedere, quindi, con le barbare pratiche poste in atto nei loro confronti dalle milizie dell’Isis, ma da ciò si comprende tuttavia che yazidi e islamisti condividono la stessa attitudine di base: una sostanziale refrattarietà nei confronti di quanti sono al di fuori della propria comunità. La differenza sta nei numeri, nelle proporzioni, non si può quindi affatto escludere che invertendo queste proporzioni l’efferatezza, in caso di conflitto tra le parti, non sarebbe almeno paragonabile, perché la percezione è pur sempre la stessa: i propri principi sono giusti in assoluto e non possono essere relativizzati. Il passo da questo semplice assunto alla pretesa di imporlo a tutti, e a tutti i costi, forse non è poi così tanto lungo.

Perfino nell’occidente moderno e secolarizzato il riconoscimento dei diritti umani viene spesso condizionato dalla pressione esercitata dalle religioni organizzate, che naturalmente pretendono di imporre un loro sistema di diritti che antepone la comunità, la loro, con regole spacciate per rivelazione divina, agli individui. Laddove il clero può disporre di maggiore credito i diritti umani perdono terreno a favore degli assoluti dogmi religiosi. Lo abbiamo visto nel caso del Guatemala, dove il Parlamento ha discusso una proposta per obbligare lo studio della Bibbia a scuola e a un ateo è stato perfino impedito di esprimere opinione contraria, e lo abbiamo rivisto in questi giorni in Paraguay, dove una ragazzina di appena 11 anni, rimasta incinta del patrigno, è stata costretta a portare a termine la gravidanza perché la rigida legislazione paraguaiana ammette l’aborto solo in caso di pericolo per la madre. Una sana relativizzazione rispetto alla specifica circostanza, viste anche le sollecitazioni arrivate da più parti del mondo, no vero?

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

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