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Laurearsi? Conviene ancora

Uno dei tormentoni di questi ultimi anni di crisi è sulla presunta utilità o inutilità degli studi universitari, ovvero le possibilità reali dei laureati nel mondo del lavoro. Una grossa sfiducia e frustrazione emerge tra i giovani all’uscita dall’università a ogni puntuale uscita di dati che rimarcano la crescente disoccupazione giovanile e precarietà dei rapporti di lavoro per i giovani.

Così si è assistito anche a un calo delle immatricolazioni nelle università italiane: nel 2010 il 62% dei diplomati ha scelto di andare all’università, contro il 68% del 2007. Considerando che secondo i dati Eurostat solo il 20,3% dei 30-34 enni, per esempio, possedeva una laurea nel 2011, contro una media europea del 34,6%.

Ma infatti, soprattutto alla luce del fatto che i laureati rimangono una minoranza, i dati negativi sull’occupazione e i salari riguardano veramente loro? In che misura?

Il rapporto 2012 dell’ISFOL, Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori, delinea una tendenza abbastanza diversa dalla vulgata comune.

Analizzando i dati tra il 2007 e il 2010, si vede che sono stati persi con la crisi 350 mila posti di lavoro, portando il tasso di occupazione dal 58,7% (record positivo storico) al 56,9%.

Se si scompongono i dati per titolo di studio si nota che rispetto a un calo medio dell’1,8% tra i laureati invece il calo è del 1,3%, dal 77,6% al 76,4%, un trend riscontrabile in tutte le regioni tranne al Sud, dove a salvarsi maggiormente sono invece i lavoratori a istruzione minima.

Anche il tasso di disoccupazione, classicamente più basso tra i laureati, aumenta meno che nella media, del 1,3%, dal 4,4% al 5,7%, contro un aumento medio nazionale del 2,3% dal 6,1% al 8,4%.

E se per gli altri livelli di istruzione vi è un rilevante aumento della disoccupazione di lunga durata (più di 12 mesi) con la crisi, per i laureati addirittura scende leggermente, essendo già meno rilevante.

Ancora più rilevante è la statistica sulla quota di persone disoccupate che sono riuscite a entrare nell’occupazione nel 2010, ebbene in media sono state tra i 15 e i 29 anni il 28,6% dei disoccupati, ma tra i laureati questa cifra arriva al 40,1%.

Sappiamo come tra i giovani vi siano più laureati e anche più precari, quindi sarebbe da immaginare una naturale e più che proporzionale tendenza alla precarietà tra i laureati, eppure l’analisi della durata del posto di lavoro evidenzia come dopo i primi 13 anni di lavoro la permanenza sul lavoro sia maggiore tra i laureati e aumenta dopo. Naturalmente è ancora presto per trarre conclusioni sui giovani entrati nel lavoro dopo la riforma Treu.

Un indicatore paradigmatico è la verifica delle condizioni occupazionali di coloro che erano in cerca di lavoro nel 2008, monitorati due anni dopo nel 2010. Ebbene, su 100 18-29 in cerca con qualifiche basse del 2008 erano inattivi o disoccupati 2 anni dopo il 66%, mentre solo il 54% tra chi aveva qualifiche alte (high skill), in particolare il 42% tra i laureati. Qui la differenza come si vede è veramente notevole.

Molto interessante è osservare dove si concentra l’aumento dell’occupazione tra 2010 e 2011 come paradigma anche di un trend più strutturale. Allora vediamo che l’occupazione è salita di 118 mila unità, e se abbiamo circa 60 mila posti in più nel settore dell’assistenza domestica (badanti), 46 mila sono state attività professionali, scientifiche o tecniche, decisamente settori per laureati, cui si devono aggiungere un 15 mila nell’informatica (…) e 12 mila nella sanità. Le perdite maggiori, circa 55 mila, sono state nelle costruzioni, mentre le perdite maggiori in settori per laureati sono state nell’istruzione, sui 20 mila. Vi sono poi movimenti di poche migliaia di unità in positivo e negativo in industrie a valore aggiunto abbastanza alto. Di conseguenza anche qui si vede come il lavoro laureato sia stato leggermente favorito nel netto dell’occupazione, mentre l’aumento nell’attività di assistenza domestica è compensata quasi completamente dal calo nelle costruzioni.

Da notare che anche in settori ad alta intensità di lavoro e con lavoro tradizionalmente non molto qualificato come il tessile ad una diminuzione del valore aggiunto è corrisposto sì una diminuzione dell’occupazione ma un aumento dell’export a testimonianza di una focalizzazione sulla gamma alta, da cui si desume che la diminuzione occupazionale è stata concentrata maggiormente in personale meno qualificato che in laureati.

Se crescono e risultano avvantaggiati i laureati, a differenza del resto d’Europa c’è però una stagnazione delle professioni altamente specializzate, quindi i laureati si trovano a svolgere professioni spesso non adeguate agli studi. E allo stesso tempo si deve sottolineare che vi è un aumento della domanda di lavoratori per mansioni non routinarie (sempre più sostituiti dalla tecnologia) ma labour intensive, come i badanti appunto, con una polarizzazione del mercato del lavoro tra professioni avanzate e molto manuali.

Infatti le previsioni dell’ISFOL per il 2015 contemplano un aumento dell’occupazione del 3,3% di media, con ben un 14% per le professioni non qualificate, un 5,5% per le professioni elevate di tipo scientifico, un 3,5% per professioni tecniche e specialistiche nei servizi (come gli informatici), e un calo anche del 4% per fasce intermedie come gli operai specializzati e semi-specializzati, i conduttori di impianti e gli artigiani.

D’altronde l’impietoso dato sulla percentuale di occupati in lavori high skill e soprattutto sulla percentuale di laureati occupati in queste professioni fanno capire che vi sono potenzialmente ampi margini di miglioramento per i laureati stessi: solo il 18% contro il 23% di media europea degli occupati lavorano in professioni elevate, ma mentre in altri Paesi anche con produzioni a valore aggiunto modesto come Romania o Portogallo, questi pochi posti sono occupati da laureati tra il 70% e il 90% del totale, da noi i laureati ricoprono questi ruoli solo per poco più del 50%. Vi è sicuramente una componente di mentalità da parte di imprenditori e personale delle risorse umane in questo dato, oltre al ridottissimo ricambio generazionale presente anche in questi lavori.

Nel complesso appare evidente che sussiste un vantaggio nell’inserimento nel mondo del lavoro per i laureati, pur con ovvie differenze da facoltà a facoltà. Come mai dunque negli ultimi anni si è diffusa come una litania la narrazione per cui converrebbe poco laurearsi per un giovane, anche rispetto a diplomati che cominciano a lavorare in settori di industria ed artigianato?

E’ senz’altro anche una questione di cultura e mentalità. In Italia il numero dei laureati è sempre stato tradizionalmente basso, la laurea riservata a una elite borghese che si è vista sempre privilegiata poi anche nel mondo del lavoro, spesso nelle professioni o nel settore pubblico, generoso di assunzioni e stipendi. Da qui l’aspettativa di una occupazione sempre certa e spesso prestigiosa dopo la laurea. Aspettativa così potente da essere il maggiore termine di confronto anche per i laureati attuali, spesso figli di vecchi laureati (poca la mobilità sociale nel nostro Paese), trascurando altri termini di confronto come diplomati o lavoratori con ancora minore istruzione.

Inoltre ha rilevanza l’attenzione mediatica, indirizzata verso un fenomeno piuttosto che un altro. Coloro che decidono il trend da lanciare, il fenomeno da riprendere in news e approfondimenti sono dello stesso segmento sociale della minoranza di laureati, appartenenti alla borghesia, spesso alta borghesia, ed è naturale che questa abbia maggiore voce, anche attraverso i nuovi media e i social network, rispetto a diplomati o meno istruiti, per non parlare di immigrati.

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