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La questione della lingua

Una delle cose più irritanti della vague culturale neo liberista (a proposito: il neo liberismo non va confuso, come qualche interventore fa, né con il liberalismo né con il liberismo classico) è l’approccio semplicistico ai problemi sociali e culturali: i neoliberisti sono convinti di aver scoperto la pietra filosofale, per cui tutto è facilmente risolvibile una volta accettati i dogmi base del loro culto religioso. E questo “facilismo” produce una banalizzazione del modo di pensare di un po’ tutti, che si esprime a volte in forme assolutamente sconcertanti. L’assoluta inconsapevolezza dei problemi e della loro complessità è tale che lascia completamente disarmati di fronte a questa fiera dell’ovvio e del superficiale.

È così siamo finiti a parlare di una cosa delicata come i sistemi elettorali con un’intellettuale della forza di Maria Elena Boschi… Se continua così parleremo di medicina nucleare con il fruttivendolo al mercato. Non amo lo specialismo e riconosco a tutti il diritto di intervenire in ogni discussione, ma solo informandosi adeguatamente prima.

La questione della lingua è una delle più bistrattate e sulle quali è possibile sentire il più bel catalogo di banalità del mondo. Non ci si rende conto che, quella che sembra una questione semplicissima, al punto da apparire insignificante, è, in realtà, uno dei campi di scontro politico ed economico di maggiore importanza nel mondo della globalizzazione.

Veniamo al dunque: è evidente che il problema della lingua veicolare non è solo quello di capirsi con un tassista su dove andare o con una famiglia californiana che ha bucato un copertone o riuscire ad ordinare carne in un ristorante senza che quelli ti portino pesce. Se il problema fosse questo, lo avremmo risolto dall’alba dell’umanità, visto che l’uomo di Neanderthal si faceva capire benissimo a gesti.

Il problema si pone a livelli un po’ più complessi: leggere normalmente un giornale o un libro, ascoltare notiziari, comprendere leggi, concludere un contratto di mutuo, partecipare a discussioni ad un certo livello di astrazione, discutere una causa, eseguire operazioni articolate e/o multiformi comunicando con altri ecc. A questi livelli, la lingua veicolare non può essere un po’ di imparaticcio scolastico, ma richiede un certo grado di proprietà di linguaggio, una articolazione grammaticale e sintattica abbastanza formalizzata, un adeguato bagaglio lessicale ecc.

Magari non è indispensabile conoscere l’inglese al punto da cogliere tutte le sottili polisemie dei Finnegan’s Wake di James Joyce ed apprezzare la sostituzione del genitivo sassone con la s del sostantivo plurale e coglierne la potenzialità espressiva. Ma almeno una conoscenza non superficiale, idonea a manovrare la lingua con destrezza è indispensabile. Ed è indispensabile anche al formarsi di un soggetto politico statuale: la lingua è il principale elemento formativo dell’identità di un soggetto collettivo.

Salvo rarissimi casi di bilinguismo (come ad esempio Canada, Belgio, dove, peraltro, si avvertono forti tensioni centrifughe o la Cecoslovacchia che, non a caso si è scissa), uno Stato può anche essere plurilingue, di fatto o di diritto, ma ha sempre una lingua comune dominante (tedesco in Svizzera, cinese mandarino in Cina, russo in Urss, serbo-croato in Jugoslavia, spagnolo castigliano in Spagna, inglese in India ecc.). Senza unità linguistica non è possibile costruire una “opinione pubblica” comune. E l’Europa non riesce ad essere un ambito omogeneo ed i suoi abitanti a sentirsi “europei”, ma restano tedeschi, italiani, francesi, olandesi, spagnoli ecc. perché tutti continuano a parlare la propria lingua e non esiste una "opinione pubblica europea", ma delle singole opinioni pubbliche nazionali e, infatti, al momento del voto, ciascuno si esprime entro il proprio spettro politico nazionale. I tedeschi hanno un punto di vista formato dai propri mass media ed apprendono delle ragioni di italiani, greci, spagnoli, portoghesi ecc dal resoconto che gli fanno i propri giornali, televisioni, radio ecc. E le stesse identiche cose potremmo ripetere per italiani, spagnoli, greci ecc. che ascoltano ciascuno la propria radio-televisione e leggono i propri giornali.

Ne consegue che la mediazione politica (sempre necessaria in qualsiasi sistema) deve essere condotta al vertice e successivamente solo spiegata (magari con gli opportuni adattamenti) alla base popolare che non partecipa per nulla al processo, se non come ratifica di ultima istanza. Ed, infatti, l’Europa (questa Europa) è solo una ardita costruzione tecnocratica priva di qualsiasi anima popolare. Senza risolvere la questione linguistica, l’Europa dei popoli non si fa ed è solo uno slogan di pronta beva per i palati meno esigenti.

Dunque, occorre decidere quale debba essere questa lingua veicolare comune all’Europa. Storicamente è dimostrato che le scelte possono essere solo tre:

a - una determinata lingua viva (il francese, l’inglese ecc.) che di solito è la “lingua dell’Impero”

b - una lingua artificiale, semplificata al massimo, con un bagaglio lessicale ridotto al minimo indispensabile (ad esempio l’esperanto, il volapuk, oppure le lingue franche come il “portolano” tardo medievale ecc.)

c - una lingua morta recuperata e “modernizzata” (come l’ebraico che, adeguatamente trattato, è tornato lingua viva in Israele)

La soluzione più pratica ed immediata è certamente quella di una lingua viva esistente, magari particolarmente diffusa o perché parlata da una popolazione molto numerosa (il cinese mandarino, comune ad un miliardo e 300 milioni di persone) o perché molto diffusa per le più diverse ragioni (l’inglese).

Scelta pratica sicuramente, ma storicamente è dimostrato che si tratta di una scelta politicamente non neutra ed anzi molto pesante sul piano dei rapporti di forza, sia sul piano politico che economico e culturale, perché accettare la lingua della potenza dominante implica un tacito riconoscimento di supremazia politica. Insomma: accettare che la lingua della globalizzazione sia l’inglese, pur semplificato nella forma del globish sottintende – o quantomeno favorisce fortemente – l’accettazione del modello di ordine mondiale di ha quella come lingua madre.

La ragione è molto semplice: i nativi di madrelingua sono fortemente avvantaggiati su tutti gli altri. Facciamo un esempio facilmente comprensibile: stiamo discutendo una causa davanti ad un tribunale turco, discussa in turco, basata su leggi scritte in turco, con una giurisprudenza turca, con una giuria di lingua turca e ci sono un avvocato turco, di livello tecnico non eccelso, ma di madrelingua ed uno inglese, tecnicamente bravissimo e che se la cava con il turco. Secondo voi chi è in vantaggio? È ovvio che, per quanto l’inglese possa aver studiato il turco, una serie di sfumature semantiche, di gergalità, di polisemie e sottintesi gli sfuggiranno e, comunque, dovrà fare un certo sforzo per manovrare una lingua imparata, anche bene, ma non sua, mentre questa capacità di manovra sarà del tutto spontanea per il turco. E l’inglese non riuscirà a dispiegare al massimo la sua abilità tecnica, dovendo fare i conti con la conoscenza pur sempre limitata della lingua, mentre il suo collega turco si muoverà molto più rapidamente e disinvoltamente fra leggi e sentenze scritte nella sua lingua e potrà giovarsi anche di una più ampia gamma di registri comunicativi per convincere la giuria.

Questo è vero non solo in tribunale, ma in qualsiasi altro ambito: dalle transazioni commerciali ai dibattiti parlamentari. Ma, nel mondo della globalizzazione, che ha nell’informazione e nell’intrattenimento uno dei suoi gangli vitali, questo diventa ancora più vero nel caso dell’industria culturale. Credo che sia facile capire come una canzone, un film, in libro, un notiziario, un giornale ecc, scritti nella lingua veicolare abbiano un vantaggio enorme su tutti gli altri, perché godono di una platea molto più vasta dei propri confini nazionali; mentre gli altri, per far conoscere i propri prodotti, devono affrontare il costo della traduzione. Ed è evidente il vantaggio economico che ne deriva a case editrici, cinematografiche, discografiche, televisioni, radio ecc della lingua imperante. Ne conseguono una serie di tendenze che non è difficile immaginare: tanto gli autori quanto le case produttrici, ecc cercheranno, per quanto possibile, di usare la lingua veicolare, le Tv e le radio ad approntare notiziari in quella lingua, le case cinematografiche o che producono spot televisivi inizieranno a pensare a specializzare una parte della loro produzione in direzione di quei mercati ecc. Nel tempo, questo renderà i prodotti in lingua nazionale una sorta di sotto-prodotti destinati ad un mercato di livello inferiore. Le imprese di maggiore respiro economico aumenteranno la quota di prodotti in lingua veicolare e, attraverso fusioni e partecipazioni incrociate, cercheranno di accedere alla “serie A”, mentre le altre in lingua nazionale saranno in gran parte buttate fuori mercato o dovranno accomodarsi in un mercato di nicchia.
Si comprende come, il controllo dei maggiori media mondiali, conferisca al paese della lingua veicolare uno strumento di potere di primaria importanza, anche sul piano politico. Piaccia o no, la lingua è il principale strumento di soft power perché ovviamente si porta dietro una cultura, uno stile di vita, un modello di organizzazione sociale.

Oggi lo è in misura maggiore e più aperta, ma, in qualche modo la lingua è sempre stata uno strumento di egemonia: Braudel, già mezzo secolo fa, descrivendo la gerarchia dei paesi nell’ordine mondiale, collocava al centro il paese imperiale dal quale vengono lingua, moneta e diritto. Vi dice qualcosa?

Dunque, la scelta di una lingua viva è certamente una soluzione pratica, ma ha dei costi politici che non si possono ignorare. E, nel caso europeo occorre meditare molto attentamente su quale lingua viva si potrebbe scegliere: inglese, francese, spagnolo o tedesco? Ne riparleremo.

Ci sono le altre due soluzioni: la lingua artificiale e quella morta. La prima è stata ripetutamente tentata da circa un secolo e mezzo, ma non ha mai avuto grande successo per diverse ragioni: il risultato, almeno dal punto di vista fonetico, è esteticamente improponibile, d’altra parte, se dal punto di vista lessicale si può tentare un cocktail in proporzioni variabili, dal punto di vista grammaticale e sintattico è inevitabile che la lingua artificiale risenta dell’intelaiatura di una particolare lingua viva (ad esempio il tedesco per il volapuk). Peraltro, non essendo una lingua parlata da nessun popolo, richiede un maggiore sforzo economico per essere diffusa: ad esempio, una delle tappe canoniche nell’apprendimento di una lingua, è ascoltare notiziari, leggere giornali in quella lingua, ma soprattutto effettuare un viaggio nel paese originario di essa. Operazioni ovviamente impossibili nel caso di una lingua artificiale.

Inoltre, a differenza delle lingue vive, quelle artificiali, ovviamente, mancano di una letteratura, il che ne diminuisce considerevolmente l’appetibilità. In ogni caso, è una scelta che sinora ha sempre avuto ben pochi sostenitori.

Alle mancanze appena descritte (disarmonia fonetica, mancanza di una letteratura ecc.) ovvia invece la scelta di una lingua morta, che ha una sua organicità tanto fonetica quanto lessicale, grammaticale e sintattica. Resta il problema di essere lingue non parlate, allo stato attuale, da nessun popolo, così come è evidente che, in una certa misura, il diverso grado di distanza delle lingue correnti dalle varie lingue morte potrebbe influenzare la scelta verso l’una o l’altra (ma di questo parleremo in altra occasione).

Esiste poi un problema particolare: una delle tendenze costanti è quella alla semplificazione della lingua attraverso la riduzione di tempi e modi del verbo, l’eliminazione o la forte riduzione delle eccezioni ecc. e le lingue morte hanno spesso costruzioni che occorrerebbe semplificare fortemente, così come, il lavoro di adeguamento, richiederebbe una consistente revisione ed arricchimento del lessico. Nulla di impossibile, beninteso, come l’esperimento di Israele dimostra, ma sicuramente una operazione costosa e che richiede almeno una generazione per poter funzionare almeno accettabilmente.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.110) 11 luglio 2014 16:23

    Spero che nel prossimo articolo non proporra’ di adottare l’ebraico come lingua comune. E poi perche’ non il greco o il latino che molti lo conoscono gia’ dagli studi scolastici?

  • Di (---.---.---.116) 12 luglio 2014 08:07

    Personalmente ritengo che non sarebbe così male se ogni paese si tenesse la sua lingua. Una lingua comune tende a omologare: già adesso c’è troppo inglese in Italia, specialmente dove non ce ne sarebbe bisogno.

    Per la parte politica e amministrativa dell’Europa, che ne direbbe di Interlingua?

    Saluti,

    Gottardo

  • Di (---.---.---.221) 12 luglio 2014 12:05

    Ma perchè non dire chiaramente il pensiero che si nasconde dietro a tutto questo?

    Anche l’immagine che accompagna l’articolo (la torre di Babele di Bruegel) lo denunciano senza possibilità di fraintendimenti: gli Stati Uniti d’Europa sono un’utopia non solo irraggiungibile, inevitabilmente destinata al fallimento, ma anche (e sopratutto) una sventura che nessuno vuole veramente.

    Sotto sotto, quando si parla di Europa Unita, ciascuno pensa ad una Europa dove lingua, cultura, stili di vita e persino la moneta (si pensi all’euro, costruito in modo che di fatto ha finito per avvantaggiare sopratutto la Germania), siano di derivazione più o meno diretta del proprio Paese.

    Per non parlare dell’organizzazione politica e statale. Attualmente fanno parte della U.E. 28 Paesi, di cui:

    · 19 Repubbliche parlamentari

    ·  2 Repubbliche federali

    ·  7 Monarchie costituzionali

    ·  1 Granducato

    Come sia possibile anche solo immaginare di conciliare tante diverse forme di governo, sceglierne una unica e realizzare una effettiva unione politica, con una Costituzione comune che non sia solo un pio enunciato di generiche buone intenzioni, è veramente strabiliante.

    L’unica forma di unità che può funzionare e che, pur con tutti i suoi limiti, di fatto ha funzionato egregiamente fino alla malaugurata introduzione dell’euro, è stata quella nata dal trattato di Maastricht.

    Tutto il resto sono chiacchiere e confusione, ma nella confusione, purtroppo, si muovono agevolmente disonesti e profittatori per i loro sporchi affari. 

  • Di (---.---.---.220) 12 luglio 2014 15:08

    Interessante articolo.... ma quale soluzione proporresti quindi, visto che nessuna delle tre di cui parli pare essere idonea??

  • Di (---.---.---.221) 12 luglio 2014 17:26

    Fare del fallimento degli Stati Uniti d’Europa una questione principalmente di lingua, è riduttivo e semplicistico.

    Se invece si ragiona in termini di forma di governo e, sopratutto, di leadership, allora si capisce come tutto il resto sia secondario, sopratutto se si tiene conto che non siamo nelle mani di personaggi come Adenauer, Schuman e De Gasperi, ma di mezze calzette senza ideali se non quello di restare il più possibile al potere ed goderne i vantaggi.
    I migliori ideali, quando se ne appropriano burocrati e profittatori, vengono presto svuotati del loro valore e divengono un paravento per commettere le peggiori ingiustizie.

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