• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > La monacazione forzata nella letteratura

La monacazione forzata nella letteratura

Da Piccarda nella Commedia a Gertrude nei Promessi sposi. Come la letteratura ha trattato una pratica di origine medievale che costituì a lungo un grosso ostacolo all’emancipazione femminile.

Come dimostra la vicenda di Piccarda Donati spesso le monache, appartenenti a importanti famiglie locali, venivano prelevate con la forza dalla loro vita monastica e costrette a fare da pedina di scambio nella politica matrimoniale di riappacificazione che era diventata un’usanza consolidata nell’Italia del XVII secolo, insanguinata da continue lotte e faide fra famiglie rivali. D’altra parte, però, un altro tipo di “violenza” e costrizione che le donne erano spesso costrette a subire era la cosiddetta monacazione forzata.
 
La legge del Maggiorasco, allora vigente in tutta Europa, stabiliva che il patrimonio, alla morte del padre, non si dovesse dividere fra i vari figli (in parti uguali o no) ma dovesse passare tutto in eredità al primogenito. Gli altri figli, chiamati figli cadetti, per non far sfigurare la famiglia, erano costretti a mantenersi con le proprie forze attraverso la carriera ecclesiastica o quella militare. Va tenuto conto però che per i figli maschi c’era una maggior possibilità di scelta: essi potevano mettersi al servizio del primogenito, intraprendere il mestiere delle armi (che poteva a volte risultare particolarmente redditizio), arricchirsi per proprio conto nelle fila della borghesia cittadina o scegliere la carriera ecclesiastica.
 
Per le donne, invece, non c’era scelta: l’unica strada erano i voti e una vita in convento interamente dedicata alla preghiera. Anche il matrimonio era a volte categoricamente escluso, in quanto la dote da portare all’altare era di gran lunga maggiore di quella da versare al convento per la monacazione di una figlia.
Ad esempio, nella Repubblica di Venezia, la dote matrimoniale ammontava a 15.000 ducati, mentre il monastero si accontentava anche di 1.200.
 
A testimonianza di come questa pratica divenne ben presto un vero e proprio problema sociale, sta la disputa nata fra la Serenissima e la Chiesa riguardo la regola monacale. Dal momento che nella Repubblica lagunare si dava ormai per scontato che quasi tutte le monache che prendevano i voti negli ultimi tempi lo facevano contro la loro piena volontà (e in effetti così era), si tentava di smussare la durezza della regola monacale per quanto riguardava il vestire, il mangiare e i contatti fra le monache e l’esterno. Al contrario la Chiesa, esitante ad adattare la regola secolare alla pur evidente verità, voleva mantenere intatti, se non addirittura inasprire, tali obblighi e restrizioni.
 
Sono eloquenti le parole di un Magistrato veneziano addetto ai conventi: “Quelle che vivono in Monastero come in un deposito son in numero tale che se fossero libere sarebbe sovvertito l’ordine di tutta la città.”
 
La letteratura non rimase indifferente ai drammi della monacazione forzata, che fu un tema molto trattato da tutta la letteratura europea, in particolare quella italiana e francese. Così, ad esempio, in Inferno monacale la suora Arcangela Tarabotti, sfruttando l’unica libertà ancora pienamente concessale, e cioè quella di scrivere, denuncia con una forza dovuta alla simile esperienza vissuta sulla propria pelle, quel”luogo che i parenti presentano alle fanciulle come un paradiso terrestre e che a poco a poco si rivela loro come inferno […] perché privo di speranze di uscire”.
 
Non a caso a quest’opera si affianca La tirannide paterna, denuncia all’obbligo che i padri impongono alle figlie, destinandole contro la loro volontà al monastero. Il conflitto fra lo stato di estraniamento dal mondo e dagli affetti, provocato dalla monacazione forzata, e l’amore è trattato in Lettere portoghesi, di autore anonimo. E’ un romanzo epistolare, una raccolta di lettere scritte con nostalgia da una monaca segregata in monastero al suo amato in giro per il mondo.
 
Esempio memorabile è quello del La Religieuse, di Denis Diderot, che testimonia come tale condizione femminile persista nella Francia prossima alla Rivoluzione. Anche Verga dedicò un romanzo a questo tema: Storia di una capinera, ambientato nell’Italia meridionale della seconda metà dell’Ottocento, in cui la monacazione forzata è ancora una tradizione fortemente consolidata.
 
Eppure è ne I promessi sposi, con il personaggio della monaca Gertrude, che si ha l’esempio più drammatico di questa condizione. Infatti Gertrude, più che con la forza, è costretta a prendere la toga attraverso una costante pressione psicologica dal momento della sua nascita, in cui lo stato di secondogenita aveva già segnato il suo destino. Da piccola, i suo regali consistevano in piccoli santini, bambole vestite da suora e lo sesso linguaggio che si usava con lei era finalizzato ad abituarla a quello del monastero. La monacazione sembra per Gertrude l’unica scelta possibile, perché è l’unica che riesce a immaginare. Le catene le vengono assicurate quindi non al corpo ma alla mente. Scopre troppo tardi, ormai già nel convento, gli istinti vitali che le erano stato negati, e finisce con l’innamorarsi dello scellerato e perverso Egidio, che la trascina nella complicità verso i suoi crimini, spingendola a tradire la stessa Lucia che nel convento si era rifugiata.
 
Con sguardo lungimirante, quest’insofferenza che affliggeva la condizione femminile sfocerà (letterariamente parlando) in due capolavori che mineranno alla base questa concezione schiavizzante della condizione femminile: Madame Bovary di Gustave Flaubert e Casa di bambola, del norvegese Henrik Ibsen (non a caso entrambi provocarono scalpore e indignazione fra il pubblico borghese dell’epoca).

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares