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La lunga uscita dall’Europa

Agli occhi delle classi dirigenti la possibilità di uscire dall'Europa deve apparire inspiegabile: “Ma come, proprio ora che l’Italia ricominciava a crescere? Ora che abbiamo creato tanto lavoro? Ora che i conti sono in ordine? Ora che il paese è proiettato verso un glorioso e radiante futuro?”. Ma le cose non stanno realmente così.

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PIL pro capite in euro

In una fase politica in cui a farla da padrona è la totale incertezza, un indubbio vantaggio lo può trarre chi non è chiamato a partecipare a scelte di responsabilità politica nel breve periodo.

Ciò non vuol dire restare immobili, per i partiti insoddisfatti dall’esito delle ultime elezioni infatti è arrivato il momento di tirare finalmente le somme, capire i motivi dell’insuccesso ed elaborare le strategie per superarlo.

Particolarmente interessante è il caso del Partito Democratico, fino a pochi giorni fa riferimento principale dei governi degli ultimi cinque anni, ed oggi tagliato fuori da qualsiasi possibile incarico istituzionale. Se da un punto di vista politico le motivazioni appaiono scontate, potrebbero dare maggiori spunti di riflessioni i dati relativi all’evoluzione economica del paese nel corso dell’ultimo esecutivo.

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Tassi di occupazione, fonte dati Eurostat

La clamorosa débâcle elettorale si sintetizza facilmente così: il 5 marzo 6.161.896 elettori hanno votato PD, nel 2013 sono stati 8.646.034. In sostanza in cinque anni è aumentato di due milioni e mezzo il numero di persone che ritengono auspicabile che il Partito Democratico stia fuori dal controllo della cosa pubblica.

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PIL pro capite in euro, fonte dati Eurostat
 

Ogni tentativo di analisi seria non può non partire da questo dato, e dal cercare di capire perché dopo anni di decantato buon governo, un bis è risultato essere un’opzione tanto indesiderabile. Agli occhi della classe dirigente il fallimento del 5 marzo deve apparire inspiegabile: “Ma come, proprio ora che l’Italia ricominciava a crescere? Ora che abbiamo creato tanto lavoro? Ora che i conti sono in ordine? Ora che il paese è proiettato verso un glorioso e radiante futuro al centro dell’Europa?”.

Ma è andata proprio così? A saper leggere i dati, in realtà, i fatti sembrano essere leggermente diversi. Analizzando il principale indicatore economico, con tutti i suoi limiti, si può osservare infatti che negli ultimi cinque anni la crescita del PIL in Italia è stata ben al di sotto delle aspettative, al di sotto cioè della media dei 19 paesi Euro (che rappresentano il gruppo omogeneo valido per le comparazioni macroeconomiche).

Negli anni che vanno dal 2012 al 2017 (ultimo periodo per il quale le statistiche Eurostat sono consolidate), il prodotto interno lordo pro capite nell’area Euro è passato da 29.200 a 32.700 euro, con un incremento del 12%, mentre in Italia la crescita si è fermata al 6,4%.

Nel 2012 il reddito pro capite dell’Italia era inferiore dell’8,5% rispetto alla media europea, oggi è inferiore del 13,15%. In sostanza la distanza dall’Europa non solo è aumentata, ma è aumentata considerevolmente. Inoltre bisogna considerare che i dati dell’Europa includono ovviamente anche l’Italia, che trascina pertanto verso il basso la media europea: se si confrontassero i dati italiani con la media dei restanti 18 paesi in area Euro le distanze risulterebbero ancora maggiori.

 

PIL pro capite in euro, fonte dati Eurostat {JPEG}

 

Anche i dati relativi al mercato del lavoro registrano un sostanziale allontanamento dell’Italia dall’Europa se osserviamo la serie storica relativa al tasso di occupazione (indicatore più opportuno del tasso di disoccupazione per la misurazione dello stato di salute dell’economia di un paese, ma ad ogni modo anche il tasso di disoccupazione confermerebbe il fenomeno).

Nel 2012 in Europa il tasso si attestava al 64% mentre in Italia era fermo al 57%, in cinque anni la forbice si è allargata di ulteriori 2 punti percentuali. Mentre in Europa, nonostante si partisse da tassi molto più alti e quindi con margini di miglioramento limitati, c’è stato un netto incremento dell’occupazione (+3%), in Italia - dove i margini di miglioramento erano superiori - si è verificato quasi uno stallo (+1%).

 

Tassi di occupazione, fonte dati Eurostat {JPEG}

 

A questi dati oggettivi va aggiunta la considerazione che i mediocri risultati italiani sono stati raggiunti grazie alle decine di miliardi di euro elargiti alle imprese sotto forma di incentivi alle assunzioni, ed alla decapitazione dei diritti dei lavoratori (e di conseguenza dei salari) attuata dalla riforma del lavoro affidata ad un perito agrario (il ministro Giuliano Poletti), andando a comporre un articolato sistema di politica economica fortemente regressiva.

Proprio il carattere regressivo dell’azione governativa a marchio PD è forse la costante che colpisce e sconforta maggiormente. In effetti sarebbe sufficiente un minimo ragionamento logico per comprendere come una politica contraddistinta da tagli alle spese di cui usufruiscono in maggior misura le classi svantaggiate (istruzione e sanità pubblica, risorse degli enti locali, ecc.), che hanno finanziato bonus concessi indipendentemente dal reddito (bonus bebè, diciottenni, lavoro dipendente, ecc.) o addirittura privilegiato le classi agiate (grandi evasori fiscali attraverso i condoni, ed imprenditori attraverso gli incentivi alle assunzioni che spostano sulla collettività il rischio d’impresa), non possa mai far approdare ad effetti economici progressivi.

Anche in questo caso ci vengono in supporto dati inoppugnabili. Il coefficiente di Gini è l’indicatore deputato a misurare la concentrazione nella distribuzione del reddito (l’indice può assumere valori compresi tra 0 e 100, dove valori più alti corrispondono a maggiore diseguaglianza). Dai dati Eurostat possiamo osservare come tra il 2012 ed 2016 (ultima statistica consolidata) nell’area Euro c’è stato un leggero incremento dell’indice (+0,2), mentre in Italia l’incremento delle disuguaglianze è stato superiore (+0,7), nonostante si partisse da una situazione in cui l’Italia aveva maggiori margini di miglioramento risultando più disomogenea.

 

Coefficiente di Gini, fonte dati Eurostat {JPEG}

 

In buona sostanza, anche dal punto di vista della redistribuzione delle ricchezze e dell’uguaglianza sociale, l’Italia si allontana sempre di più dall’Europa. Qualcuno a questo punto potrebbe far notare che, non potendo fare le nozze coi fichi secchi, il governo marchiato PD ha dovuto badare principalmente ai conti, riducendo il debito per ottenere il plauso dell’Europa ed avere la credibilità e la forza per trattare migliori condizioni. È riuscito almeno in questo?

In realtà tra il 2012 ed 2017 il debito pubblico italiano risulta aumentato di quasi 300 miliardi di euro (60 miliardi l’anno, un tesoro simile alle previsioni di maggiore spesa paventato dai “contratti populisti”), con un incremento percentuale del 13,7%. Ancora una volta il confronto con quanto è accaduto in Europa è scoraggiante, dal momento che in zona Euro tale incremento si è fermato al 9,7%.

 

Debito pubblico (in milioni di euro), fonte dati Eurostat {JPEG}

 

Anche se osserviamo uno degli indicatori maggiormente utilizzati per valutare la solidità finanziaria dei paesi, nonché la credibilità nei confronti delle istituzioni internazionali, c’è ben poco da sorridere: nel 2012 il rapporto debito/PIL in italia era al 123,4%, oggi è schizzato al 131,8% (aumentando di 8,4 punti percentuali). Nello stesso periodo in Europa il rapporto debito/PIL è diminuito di 3 punti percentuali, la forbice ha continuato quindi ad allargarsi tristemente: dai 33 punti di differenza del 2012 si è passati ad oltre 45 punti percentuali.

Rapporto debito/PIL, fonte dati Eurostat {JPEG}

In parole povere l’Italia ha aumentando il suo debito in misura maggiore dell’Europa, ottenendo però tassi di crescita del PIL e dell’occupazione inferiori, ed imponendo alla popolazione un incremento maggiore delle disuguaglianze.

Tutto ciò si è verificato in una fase congiunturale favorevole, che gli altri paesi della zona Euro hanno saputo cogliere conseguendo risultati di gran lunga superiori a quelli italiani. Il "buon governo" insomma si è dimostrato sostanzialmente incapace di cogliere i segnali positivi dell'economia globale, perpetuando le stesse dinamiche già viste nei decenni precedenti: debito galoppante, crescita stagnante, contrazione dei diritti, il tutto a discapito delle classi basse e medie.

Tornando al tema iniziale, appare evidente come l’incredibile perdita di consenso del maggior partito di governo degli ultimi anni sia in larga parte correlata alle devastanti performance economiche subite dalla popolazione, risultato dell’azione politica degli ultimi anni. Azione politica che, in sordina e senza il bisogno di proclami populisti, sta di fatto conducendo inesorabilmente il paese fuori dall’Europa.

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