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La "Napoli monnezza" immaginaria che piace tanto al Nord

Quello che si legge nel pezzo di Lettera43 intitolato “La Napoli Monnezza che non vuole ribellarsi” è il paese del pregiudizio, ma è soprattutto un paese irreale dai chiari tratti diffamatori. Che giornalismo è quello che ribattezza una città di milioni di abitanti come Monnezza?

 

Che giornalista è quello che gioca ad associare a Napoli la parola “monnezza”, facendo finta di ignorare che in pochi anni la regione Campania ha già raggiunto regioni come la Toscana, la Liguria o la Val d’Aosta per la raccolta differenziata, meritando un encomio e non il disprezzo e la disinformazione?

L’articolo, che ha come unico obiettivo quello di manifestare un odio senza tempo contro la città di Napoli, mettendo insieme verità e menzogne con fatti di cronaca accaduti a Napoli come altrove ma rappresentati come se fossero peculiarità di un popolo sottosviluppato e inferiore, è talmente impudente da non preoccuparsi di distinguere tra vero e falso, nella foia di demonizzare una parte del paese.

L’autore, per esempio, finge di non ricordare un fatto noto forse al 90% degli italiani, ovvero che Ciro Esposito, il ragazzo morto il 3 maggio prima della finale di Coppa Italia, sia stato assassinato con un colpo di pistola sparato alle spalle da un neofascista romano. Nel suo racconto d’odio è più funzionale -per poter poi criminalizzare la vittima già che l’assassino non è neanche nominato - farlo ammazzare (come scrive per ben due volte) da una coltellata. Era così difficile verificare la notizia? È un refuso? Ha l’autore l’autorevolezza sufficiente per scrivere di un tema del quale palesemente ha una idea così vaga da ignorare la causa della morte? Ma Ciro è un pretesto per lanciarsi all’assalto della mamma, Antonella Leardi, la dignità della quale appare essergli molto disturbante, per accusarla addirittura di solidarietà con il più odiato dagli italiani, il famoso Genny la carogna, che per Lettera43 doveva essere condannato forse all’ergastolo, non per crimini eventualmente commessi (ma non nella fattispecie), ma in quanto portatore di nome e di faccia, con un ragionamento vicino al fascismo.

Soprattutto, è cosciente questa testata registrata in tribunale che scrivere di un ragazzo incensurato morto ammazzato «neppure lui [era] un gran stinco di santo» gli comporterà, a meno che non provi la sua affermazione, un’accusa per diffamazione con la quale ogni italiano onesto spererà che gli sia portata via anche la camicia? Perché non sarebbe stato uno stinco di santo Ciro Esposito? Perché abitava a Scampia? Perché era napoletano?

Nel proseguo dell’articolessa monnezza, l’autore continua a fare l’uomo d’ordine, parlando di cose che palesemente non conosce che per sentito dire. Cita altri episodi di cronaca, ma sempre e solo per trarne condanne collettive per un popolo intero. Si sente forte l’articolista nell’inserire qualche termine dialettale, «monnezza», «scarrafone», «guaglione», orecchiato chissà dove, per usarlo sempre in maniera insultante, facendo sprizzare il suo odio anti-napoletano da tutti i pori e con ciò gli basta per serrare un sillogismo per il quale tutti i napoletani sarebbero colpevoli. Non varrebbe la pena attardarcisi se non fosse l’ennesima prova di un pensiero mainstream italiano che oramai si nutre di pregiudizio e d’ignoranza fino ad individuare una presunta colpa collettiva in una «maggioranza silente che, colpevolmente, non reagisce». E di quale reazione si tratta si capisce alla fine, nell’invocazione della morte. Lettera43 infatti invoca la morte per Genny la carogna, per quelle che chiama «madri monnezza» e per «i furti». Morte che dovrebbe essere data da una categoria fino a quel momento considerata complice, i napoletani onesti, che vengono istigati, al culmine del delirio, ad «uccidere» i cattivi, in un lavacro di sangue.

Nei decenni passati dal Nord si accusavano i siciliani di essere omertosi e conniventi con la mafia. Poi la linea della palma è salita, e si è incaricata di dimostrare quanto era ovvio a chiunque fosse intellettualmente onesto: da Varese a Treviso, di fronte alla criminalità organizzata, ci si comporta esattamente come a Corleone o a Casal di Principe. Qualcuno si ribella, altri abbassano la testa, parecchi ci fanno affari, com’è accaduto con i rifiuti tossici sversati dal Nord nella Terra dei fuochi. Già, la Terra dei fuochi, con il genocidio del cancro inoculato dai rifiuti tossici. A questo giornalismo monnezza però non importa; per loro, dando un contributo fondamentale alla soluzione dei problemi di Napoli e del Mezzogiorno, un territorio intero sarebbe null’altro che «un cancro sociale». Cos’altro è questo se non razzismo?

Questo articolo è stato pubblicato qui

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