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"La La Land": una dichiarazione di vero amore nei confronti del cinema

Sebastian (Ryan Gosling) è un talentuoso pianista jazz che rincorre il sogno di sfondare nel mondo musicale e riuscire, così ad aprire un locale tutto suo, cercando di eguagliare le grandi leggende musicali del passato. Mia (Emma Stone) lavora in un café all’interno degli studi Warner Bros. Il suo intento è quello di diventare attrice ed è per questo che, giorno dopo giorno, tenta svariati casting. Le strade dei due sono destinate a incrociarsi: prima bruscamente e poi, dopo alcuni mesi, in maniera amichevole.

Conoscendosi e raccontando vicendevolmente le loro passioni, tra Mia e Sebastian inizia a nascere un sentimento di amore che, col passare del tempo, sembra affacciarsi su un roseo futuro. Ma quando Sebastian entra a far parte di una band musicale capitanata dal vecchio amico Keith (John Legend), la relazione con Mia viene messa a dura prova.

Oggi come oggi avere la certezza di entrare in una sala cinematografica e trovarsi di fronte a un film dal forte impianto classicista, si rivela alquanto ostica. Se si escludono quei registi che vanno sotto l’insegna di authors, di autori fieri di guardare al passato per far grande il cinema odierno, le scelte filmiche, spesso e volentieri, sono relegate alle mega produzioni di blockbuster di puro entertainment. Fortunatamente capita di imbattersi in rilevanti eccezioni, in nuove leve registiche sì figlie del postmodernismo ma che – tuttavia – hanno fatto loro la politica autoriale di un tipo di cinema di tanti anni addietro. È il caso di Damien Chazelle, giovane regista classe 1985 che con il suo sorprendente e inaspettato La La Land (id., 2016), ha dato un importante e fondamentale contributo alla (ri)nascita di quel cinema classico del passato.

Forte di un imponente impatto visivo e scenografico, che gioca perennemente – senza mai annoiare o stancare – con colori vivaci e dal forte cromatismo, La La Land potrebbe sembrare una banale incursione nel genere del musical eppure, dietro l’aspetto apparentemente glamour e pop dell’opus numero tre di Chazelle, l’ossatura portante è ben più complessa di quanto sembri. Il regista, il quale due anni fa si è fatto notare con il robusto e psicologico Whiplash (id., 2014), conosce ed ha assimilato alla perfezione la storia della cinematografia americana classica, di quella Hollywood d’oro che ha avuto la parte del leone tra gli anni Trenta e Sessanta. Se fin dalla strepitosa e coinvolgente sequenza iniziale di La La Land, girata in piano sequenza e che funge da vera e propria ouverture alla storia, Chazelle dà prova delle sue doti tecniche di regista/autore, la vera potenza filmica, il punto nevralgico del suo film viene posto sotto la lente con l’entrata in scena dei due protagonisti, i quali ricalcano in pieno le figure mitiche legate all’immaginario collettivo della vecchia Hollywood.

Sebastian e Mia sono due satelliti che ruotano nella stessa orbita, due stelle non ancora nel pieno della loro brillantezza eppure pieni di sogni, di idee e di obiettivi da conseguire. Non è nascosto, quindi, che i due personaggi chazelliani siano la trasposizione odierna della figura del losers, di quel tipo di persona che cerca in tutti i modi di sfondare, riuscendoci solo dopo mille avversità superate con tutte le difficoltà del caso. E, come da tradizione del losers, i loro mondi si incrociano sul sentiero che porta dall’anonimato all’ascesa artistica, su quelle strade della Los Angeles fabbrica dei sogni, perennemente illuminata come un immenso set. Non è di certo un caso se le vicende di La La Land prendano le mosse in quella città degli angeli, nella mecca del cinema e delle possibilità artistiche stars and stripes poiché, le esistenze di Mia e Sebastian, sono le più metacinematografiche che si possano avere. La La Land è un’opera in cui il cinema parla del cinema, in un rapporto tautologico che non si consuma nel più blando citazionismo filmico (e nel film di Damien Chazelle, di certo, le citazioni ed i riferimenti sono molti) bensì, piuttosto, mirato ad assumere la forma di una dichiarazione di vero amore nei confronti del cinema stesso, come è accaduto, qualche anno fa con The Artist (id., 2011) di Michel Hazanavicius.

Un amore dimostrato dall’accurata ricercatezza stilistica, estetica e visiva nelle coreografie e nei brani musicali di La La Land che scandiscono il ritmo dell’intero film e della narrazione, suddivisa in blocchi narrativi che si alternano con l’avvicendarsi delle stagioni e con l’accrescersi dell’amore tra Sebastian e Mia, in un crescendo di passioni artistiche e sentimentali purtroppo serbate a dividersi nel momento in cui, le importanti mete raggiunte, impongono la distanza fisica tra due cuori. Travolgente e sconvolgente (solo ed esclusivamente in senso positivo) come pochi film negli ultimi anni, La La Land è la dimostrazione di come sia possibile riportare in auge il nostalgico cinema classico di altri tempi nel momento in cui, unendo tecnica e passione, si riesce a dar vita a qualcosa di veramente sentito. Avvalendosi della fenomenale bravura di Ryan Gosling (icona di importanti opere come Half Nelson, Blue Valentine, Drive) e di Emma Stone (già talentuosa in The Help, Magic in the Moonlight, Birdman) che qui conquistano di pieno diritto la consacrazione nell’Olimpo attoriale, di una sceneggiatura senza sbavature alcune e di un apparato tecnico (regia, fotografia, suono, luci) di altissimi livelli qualitativi, è giusto riconoscere a La La Land l’appellativo di capolavoro senza tempo, che (quasi) raggiunge la più completa perfezione cinematografica. Malinconico e commovente (senza fare ricorso a patetismi e scevro di scene melense) come il main theme che fa da leitmotiv alle esistenze di Sebastian e Mia, La La Land riesce a far provare allo spettatore (cinefilo e non) sensazioni indescrivibili che lasciano gli occhi umidi e il cuore pieno di gioia, confermandosi come l’attestazione più evidente di come l’amore per la passione, per le arti e (come accade ai due protagonisti) per le persone importanti non tramonti mai.

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