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La Gran Bretagna non è più un paese cristiano

La Gran Bretagna non è più un paese cristiano: il cambiamento sociale è radicale e le istituzioni devono adeguarsi alla pluralità di credenze ormai consolidata. Ad affermarlo il report di una commissione indipendente sulla religione, presieduta dall’ex giudice Elizabeth Butler-Sloss, che ha riunito esponenti di diverse confessioni, accademici, rappresentanti della British Humanist Association​ per i non credenti.
I non religiosi rappresentano ormai quasi la metà della popolazione. Il cristianesimo anglicano è in declino e l’appartenenza residua si sposta verso le chiese più fondamentaliste, pentecostali ed evangeliche. Crescono le confessioni minoritarie (musulmani, sikh e hindu).

Una rivoluzione sociale e culturale però minimizzata dai media, che non danno spazio adeguato ad altre confessioni e ai non credenti. E che vede le istituzioni ancorate al passato: la monarchia è tuttora a capo della Chiesa anglicana e la Camera dei Lord riserva ben 26 seggi ai rappresentanti della confessione di stato. Viene anche contestato il sistema delle faith schools: in particolare per l’imposizione di riti quotidiani (specie cristiani) e la selezione discriminatoria in base alla fede; si richiede una generale revisione nel modo in cui viene insegnata la religione. La legislazione anti-terrorismo non deve limitare la libertà e il governo deve vigilare sull’operato dei tribunali religiosi, specie per promuovere l’uguaglianza di genere.

Se il report è interessante perché prende atto del pluralismo, si legge tra le righe un approccio multiconfessionale. Il rischio, fa notare la National Secular Society​, è di ignorare la diffusa secolarizzazione e la presenza massiccia di atei e agnostici, nonché di sdoganare in nome del pluralismo una maggiore influenza (ad esempio nei media) delle varie religioni a scapito della laicità.

Ma invece di continuare a sostenere il multiculturalismo confessionale, occorre promuovere la libertà di pensiero e di espressione, non reprimerla come avviene ad esempio nelle università ossessionate dal “safe space”. Altrimenti si rischia il radicamento di ghetti identitari, che lanciano veti reciproci su iniziative accusate di urtare certe “sensibilità” o che pretendono di influenzare sistematicamente contesti pubblici e istituzionali.

La notiiza sul Guardian. 

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