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La Germania, i social network e la lotta alle fake news. Alcune riflessioni

C'è un Paese in Europa che ha scelto la linea dura contro le fake news, le cosiddette notizie bufale che diffondono informazioni false spacciandole per vere. Il ministro della giustizia tedesco Heiko Maas ha infatti annunciato una proposta di legge che obbliga le principali piattaforme social (Google, Facebook e Twitter) a pagare una multa salata - fino a 50 milioni di euro - per ogni mancata rimozione di quei contenuti che incitano direttamente, o indirettamente, all'odio.

Basandosi sui risultati (non incoraggianti) del monitoraggio sui contenuti d'odio avviato dalla Commissione Europea nell'ambito dell'accordo fatto nei mesi scorsi con le principali piattaforme social (noto come Code of Conduct), il governo tedesco, da sempre in prima linea nel chiedere la linea dura, ha deciso di alzare l'asticella dello scontro: ritenendo responsabili le piattaforme social per i contenuti di hate speech non rimossi si propone di colpirle al cuore, o meglio al portafogli. Scelta legittima in uno Stato certamente democratico, che da tempi non sospetti ha scelto una politica di tolleranza zero verso i contenuti inneggianti all'olocausto o allo sterminio delle minoranze. Scelta ancor più comprensibile oggi, nel mezzo di una campagna elettorale trasversale all'eurozona dove il vento del populismo si alimenta proprio di questo tipi di contenuti (tutti ricorderanno la mega-bufala degli stupri di massa a Colonia ad opera di rifugiati nella notte di Capodanno del 2016).

La questione dell'odio in rete, del cosiddetto hate speech, insomma, è nota. Ogni giorno milioni di utenti delle principali piattaforme social in tutto il mondo insultano, dileggiano, aggrediscono verbalmente - in una parola odiano - altrettanti milioni di utenti. Nella maggiorparte dei casi - e l'Italia non fa eccezione - questo odio si canalizza verso minoranze: migranti in primis, rom, disabili, donne, persone LGBT andando ad inquinare, sporcare e deformare il dibattito pubblico su questioni di primaria importanza e delicatezza. Talvolta l'odio viene raccolto da veri e propri influcencer che sanno come veicolarlo anche a fini politici.

Come era ovvio, all'annuncio del ministro Heiko Maas, si sono levate molte voci critiche, anche istituzionali. Il Commissario Europeo per il mercato unico digitale al Digitale e vicepresidente della Commissione Europea, Andus Ansip, ha dichiarato che "Regolamentando in maniera eccessiva le piattaforme (digitali) rischiamo di uccidere l'innovazione in Europa". Detto in altri termini: se vietiamo qui ciò che è legale altrove (negli Stati Uniti in primis) rischiamo di far "fuggire" investimenti e capitali. E non possiamo permettercelo.

E i colossi del web? Cosa fanno? Si attrezzano tutti - nessuno escluso - per entrare "attivamente" nel dibattito ed uscire dall'angolo dell'accusa di complicità. Twitter lo fa con un nuovo algoritmo in grado di "monitorare" i profili sospetti. Google introducendo Prospective, un sistema in grado di aiutare le testate tradizionali ad individuare i contenuti dubbi. Anche Facebook si adegua, annunciando, proprio in Germania, un nuovo sistema beta di rilevazione delle fake news alle quali sarà tolta priorità nell’algoritmo di “news feed”.

Dunque si muovono i governi e anche le piattaforme private. Tuttavia, al dibattito manca qualcosa, o meglio qualcuno. Il sistema del discorso pubblico è un po' più ampio e complesso di quello delimitato dal binomio stato-mercato. La questione principale non verte sulla opportunità o meno di sanzionare, costringere, vietare determinati contenuti, siano essi fake news oppure commenti che incitano all'odio basandosi su notizie false appositamente o incautamente "drenate" dagli utenti all'interno dei social network. Il problema è "sulla base di cosa" stabilire che si tratti di fake news e, soprattutto, "chi" sia titolato a farlo.

E qui la faccenda si complica e parecchio. Prima ipotesi: sanzioniamo le piattaforme social perché non hanno rimosso (su segnalazione di un Governo) le fake news e i contenuti incitanti all'odio. Dunque è il Governo che decide cosa sia fake news e cosa sia hate speech. Fin qui tutto bene. E se poi Turchia, Cina, Russia, Pakistan (ecc...) fanno la stessa cosa? Siamo sicuri che continui ad andare tutto bene? E se poi la fake news rimossa diventa ancora più virale proprio perché "gli apparati e l'establishment" ne hanno ordinato la rimozione e quindi era sicuramente vera... che succede? 

Passiamo alla seconda ipotesi: sanzioniamo le piattaforme social perché non hanno rimosso (su segnalazione degli utenti) le fake news e gli hate speeches. Dunque lasciamo alle compagnie private l'onere della prova finale? Cosa è vero e cosa è falso? Oppure lo lasciamo agli utenti? A quegli stessi utenti che - per primi - hanno "considerato" quei contenuti falsi come veri?

Da qualsivoglia angolatura la si guardi, la questione non può non apparire che complessa. Difficile che la soluzione arrivi "solo" dal mercato. Ancora più improbabile che arrivi "solo" dalla tecno-burocrazia. Bisogna avere la pazienza, l'umiltà e l'intelligenza di fermarsi e interrogarsi sui perché di tanto odio. Aprire una discussione seria tra forze sane, pensanti e dialoganti. Perché ha ragione Bauman: "In questo mondo nuovo si chiede agli uomini di cercare soluzioni private a problemi di origine sociale, anziché soluzioni di origine sociale a problemi privati".

 

Foto: Public Domain Rewiew/Flickr

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