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La Fenice a Palazzo Ducale: in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia “Dafne” di Antonio Caldara

Stefano Montanari dirige l’Orchestra Barocca del Festival offrendo una lettura di perfetta lucentezza e abbacinante energia che traghetta interpreti e spettatori nelle più autentiche atmosfere barocche.

Anche quest’anno il Palazzo Ducale ha offerto la sua ospitalità per l’allestimento di un’opera e dopo il grandioso Otello nel celebre cortile eccoci nella Sala dello Scrutinio per assistere a Dafne, dramma pastorale per musica in tre atti, nel nuovo allestimento del Teatro la Fenice.

Dafne, libretto di Giovanni Biavi e musica di Antonio Caldara, viene da lontano, la prima rappresentazione assoluta ha luogo a Salisburgo il 4 ottobre 1719 e oggi riprende vita in questa storica sala, in un’atmosfera di semi-buio che avvolge lo spazio ormai ossidato delle tele di scuola tintorettiana di pareti e soffitto dove nemmeno la macchina del sole, Febo, riesce a donare la luce allo stanco Bucintoro della parete di fondo.

Il palcoscenico: un praticabile scarnificato di legno nudo, lo scheletro consumato dal tempo di un perduto fasto barocco e su questo, private di ogni mascheramento, le macchine: dell’alloro, del mare e di un fiume, animate dalla forza di due giovani usciti dalle grottesche di un palazzo cinquecentesco. Questa pensiamo essere l’interpretazione dello spazio scenico di Bepi Morassi, regista di questa produzione: uno scheletro, il palcoscenico, in cui si muovono pulsanti gli organi vitali - le macchine - mentre la musica, carne eterea, ineffabile, riveste il legno nudo e prende vita dal tactus dell’abitato Stefano Montanari che stagliato nel buio sembra annullare l’infinita serie di anni che ci separano dalla comprensione del suono del passato e accende l’ensemble strumentale di cui è alla guida, costituito da una dozzina di strumenti.

L’assieme è bello, le voci convincenti in una gradazione che passa dalla chiarezza di pronuncia, elasticità e agilità di Francesca Aspromonte, Dafne, fino al barocchissimo Kevin Skelton, Aminta, passando per Carlo Vistoli, Febo, che si impone per lo splendore del suono e la brillante agilità e il baritono Renato Dolcini, Peneo, dall’impeccabile e solida vocalità. Bene hanno figurato i costumi dell’Atelier Nicolao di Venezia.

Un plauso al Teatro la Fenice che per la seconda volta sceglie la raffinata volumetria di una performance barocca per condividerla con un parterre di soli 200 appassionati.

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