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La Biennale di Venezia secondo Gioni

Giunta alla 55° edizione, La Biennale di Venezia si presenta quest’anno più avvincente che mai, grazie all’opera del prescelto curatore Massimiliano Gioni, già Direttore Associato del New Museum di New York e Direttore Artistico della Fondazione Trussardi.

Ispirata all’omonima opera dell’artista italiano Marino Auriti, che dall’Abruzzo emigrò in Pennsylvania nel 1923, Il Palazzo Enciclopedico si presenta più che come mera esposizione, come una ricerca, insieme artistica e curatoriale, il cui fine è l’allargamento dei confini dell’arte contemporanea. Non solo in termini geografici, contando più di 150 artisti provenienti da oltre 38 paesi, ma anche sotto il profilo temporale, presentando opere che vanno dal XIX secolo fino ai giorni nostri.

La volontà di Auriti era quella di costruire un palazzo di 136 piani che fosse in grado di ospitare tutto lo scibile umano. Ovviamente, il tentativo dell’artista autodidatta non fu mai realizzato, benché egli sia riuscito a brevettare il suo palazzo nel 1956. Partendo da questo nobile, quanto titanico desiderio, Gioni decide di impostare la mostra internazionale non come un’enciclopedia d’arte contemporanea, piuttosto come l’enciclopedia di visioni e curiosità nate dall’ossessione di conoscere tutto, e dallo sforzo di organizzare la nostra conoscenza del mondo.

Per la prima volta, La Biennale apre così le sue porte non solo ad artisti meno affermati, se non proprio emergenti, ma anche all’opera di architetti, visionari, scienziati e profeti, mostrando duchampianamente come l’arte possa essere fatta da chiunque.

Mirando a mettere in luce il ruolo dell’immaginazione nella formazione della conoscenza di sé e del mondo, Il Palazzo Enciclopedico è strutturato secondo due correnti, che si inarcano nelle due storiche sedi ai Giardini e all’Arsenale. Posto immediatamente all’ingresso del padiglione internazionale ai Giardini, il Libro Rosso di Carl Jung, per la prima volta esposto in Italia, apre la strada a quella che sarà un’avventura per immagini nel mondo dell’inconscio, del sé più profondo e inconoscibile, ma che aspira a rivelarsi tramite il gesto artistico.

Carl Gustav Jung, Libro Rosso, 1913-20.

Il percorso espositivo procede tramite giustapposizioni: le poetiche astrazioni di Hilm af Klint sono speculari alle elaborate e rigide geometrie di Emma Kunz; le pesanti sculture dell’architetto artista Walter Pichler fanno da sfondo alla teatrale immaterialità del vincitore del Leone d’Oro Tino Sehgal; gli umili e surreali interni dei disegni di Domenico Gnoli aprono la strada alle archeologiche installazioni di Eva Kotàtkovà, fatte di oggetti e documenti estrapolati dal quotidiano.

La mostra prosegue all’Arsenale, per l’occasione completamente trasformato grazie alla felice collaborazione con lo studio Selldorf Architects di New York. Qui l’atmosfera è decisamente meno intimistica, concentrandosi sui lavori degli artisti che aspirano a dare una forma coerente alla conoscenza del mondo esterno. Il Palazzo Enciclopedico di Auriti trionfa all’entrata come simbolo squisitamente occidentale della conoscenza. Come d’altronde occidentale è la stessa idea di Enciclopedia; e infatti una delle obiezioni rivolta a questa Biennale riguarda la sua schiacciante predilezione per artisti di area Europea e Americana.

Marino Auriti, Il Palazzo Enciclopedico, 1954 ca.

È proprio all’arsenale che la strategia curatoriale diventa evidente. Al palazzo di Auriti, brevettato dallo stesso nel 1956, fanno da contraltare in questa prima sala le bellissime fotografie in bianco e nero di J. D. ‘Okhai Ojeikere: questi scatti documentano la cultura nigeriana scegliendo come soggetto le acconciature femminili, segno dello status sociale o della cerimonia in corso al momento dello scatto, offrendo un’alternativa all’archivio monumentale dell’artista abruzzese. La falsa pesantezza della scultura Belinda di Roberto Cuoghi, che ha ottenuto la menzione speciale della giuria, è posta a confronto con i dettagliatissimi disegni della giovane artista cinese Lin Xue, mentre invece un’intera stanza è assegnata all’esercito fantasma di Pawel Althamer.

Nel suo tentativo di realizzare una Biennale che trasformi il modello che la stessa Biennale rappresenta, il curatore si spoglia dei suoi panni e affida l’intera sala 10 dell’Arsenale alla direzione artistica di Cindy Sherman. L’artista americana ha così l’opportunità di realizzare all’interno della Biennale il suo personalissimo museo, fatto di opere di artisti internazionali, come Carl Andre piuttosto che Paul McCarthy o Jim Shaw, ma anche di feticci e album fotografici ritrovati dall’artista e da lei eletti a parti della sua collezione.

Il Palazzo Enciclopedico è una mostra che aspira a creare una “tensione ermeneutica”, per usare le parole del direttore della Biennale Paolo Baratta, attraverso un percorso che permetta al visitatore non di guardare con kantiano distacco, ma di instaurare un dialogo con l’opera d’arte che vada oltre l’opera stessa. Massimiliano Gioni ha così dato vita a una felice e stimolante riflessione sul ruolo delle immagini nella formazione della conoscenza, in un mondo che mai come adesso risulta asfissiato dalla quantità di materiale visivo a disposizione. La trasformazione tettonica dell’Arsenale va letta in questa prospettiva.

Impostando la mostra come una ricerca, e convertendo la Biennale in un museo temporaneo, il curatore ha sapientemente aggirato la pesante tradizione della storica istituzione. Piuttosto che modello da esportare internazionalmente, la 55° Edizione vede una Biennale che sveste i panni di macchina istituzionale, recuperando il suo ruolo più autentico di sede per la discussione e investigazione nel terreno dell’arte contemporanea.

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