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L’ora della vendetta per "Jason Bourne"

L’ex agente della Cia Jason Bourne (Matt Damon) conosce tutto del suo passato: sa che il suo vero nome è David Webb, che ha fatto parte del programma Treadstone volto alla creazione di supersoldati e che è stato utilizzato come una pedina sacrificabile. Eppure, dopo anni di latitanza, non riesce a trovare ancora pace. 

Quando Nicky Parsons (Julia Stiles), ex operativa dell’agenzia e sua complice in passato, gli fa pervenire del file secretati, Bourne scopre alcune verità di cui non era a conoscenza, come il fatto che suo padre Richard Webb (Gregg Henry), è direttamente coinvolto con Treadstone e che la Cia sta dando vita ad un nuovo programma per controllare completamente il web. Rientrato in gioco, Bourne decide di porre fine una volta per tutte alle trame oscure dei suoi ex superiori. Ma il direttore Robert Dewey (Tommy Lee Jones) gli scatena contro l’esperta informatica Heather Lee (Alicia Vikander) e il killer Asset (Vincent Cassel), il quale sembra avere un personale conto in sospeso con Bourne.

A distanza di nove anni da The Bourne Ultimatum – Il ritorno dello sciacallo (The Bourne Ultimatum, 2007), Matt Damon torna a vestire i panni di Jason Bourne, il super agente della Cia creato dalla penna di Robert Ludlum. Affidato nuovamente alla regia di Paul Greengrass, dopo lo spin-off della serie The Bourne Legacy (id., 2012) diretto da Tony Gilroy, Jason Bourne (id., 2016) – arricchito dalla presenza dei premi Oscar Tommy Lee Jones e Alicia Vikander e dall’attore francese Vincent Cassel – è il quarto sequel della saga (iniziata nel lontano 2002 con The Bourne Identity), che cerca di dare le risposte definitive a tutti gli interrogativi sul passato di Bourne. Esperto nel mettere in scena film d’azione solidi e senza sbavature, Greengrass (che qui firma anche la sceneggiatura) riprende il filo conduttore, il leitmotiv che ha permesso al personaggio di Jason Bourne di entrare di pieno diritto nell’immaginario collettivo degli spettatori. Se da una parte riprendere in mano un franchising possa risultare pericoloso, specialmente quando tutte le idee possibili sembrano già state mostrate sul grande schermo, Jason Bourne è la prova che non sempre continuare una serie è indice di mediocrità oppure di ripetitività.

I primi tre film di Bourne (più lo spin-off) hanno gettato le basi per i personaggi e per le macchinazioni in cui erano coinvolti. Il quarto capitolo, invece, fa tabula rasa, spostando l’attenzione non tanto sul contesto spionistico, quanto sul versante fisico e umano: il Bourne interpretato da Damon qui si presenta più maturo, invecchiato, incapace di riuscire a schivare tutti i colpi come una volta, sempre in bilico tra il non uccidere e l’istinto da killer insito in lui eppure, quando le menzogne vengono a galla e intaccano il precario equilibrio costruito, l’ex agente torna ad essere l’infrenabile macchina da guerra, un supersoldato in cerca di una personalissima vendetta, contro tutti quelli che l’hanno indottrinato con un falso credo.

La più grande novità presentata da Jason Bourne sta proprio qui: di fianco alla struttura di action-thriller – perno portante che ha fatto la fortuna dei precedenti episodi – c’è spazio per una incursione nel più classico revenge movie: Jason Bourne non è spinto a ritornare in azione per chiudere i conti ma, piuttosto, per compiere giustizia. Superata l’ora dei chiarimenti e della ricostruzione del proprio passato e dell’identità, resta solo il tempo per l’ora della vendetta. Nonostante il cambio di registro, Jason Bourne non abbandona i marchi di fabbrica dei prequel, come gli adrenalinici inseguimenti per le strade cittadine, i combattimenti corpo a corpo e le sequenze di suspense, che confermano (al momento) il nuovo lavoro del regista come migliore film d’azione di questo inizio di stagione.

A rendere ancora più credibile questo capitolo, ci pensa la scelta di Paul Greengrass di aver optato per uno sfondo d’azione credibile e coevo ai giorni nostri, che affonda le radici nella tanto discussa manipolazione delle informazioni e nello spionaggio della rete. Infatti nella pellicola non mancano i chiari riferimenti (direttamente citati) al caso Edward Snowden, l’analista della Nsa che qualche anno fa ha rivelato al mondo intero i programmi di sorveglianza globale, così come le frecciate alla mancanza di privacy sul web e sui social network. Una scelta, questa, che tiene lontana la sensazione di già visto e con essa anche il sentore di stantio, riuscendo a chiudere definitivamente il filone principale della saga su Jason Bourne e sui programmi di superaddestramento al centro delle vicende, in modo tale da offrire la possibilità di nuove vie da percorrere in un molto probabile seguito.

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