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L’ombra più lunga e il Raskol’nikov postmoderno

L’ombra più lunga. Tre racconti sul padre (Editore Colonnese), di Gianfranco Pecchinenda, presenta tre originali racconti di pregevole fattura, all’interno dei quali è possibile individuare alcune lucide riflessioni su tematiche classiche quali la colpa e il castigo, la responsabilità e il destino, collocati e riletti nel’ambito del sempre difficile rapporto tra le generazioni: le complesse dinamiche padre-figlio. Un modo lucido e profondo di confrontarsi con alcuni grandi nomi della letteratura quali Emmanuel Bove e, soprattutto, Fedor M. Dostoievskij.

Pietro Rinaldi, il protagonista de La Pampa Verticale, racconto che apre il trittico sulla figura paterna dell’esordiente Gianfranco Pecchinenda (L’ombra più lunga. Tre racconti sul padre, Editore Colonnese), è un anziano uomo caratterizzato da un’interiorità logorata dal senso di colpa per due tremendi delitti di cui la sua coscienza si è irrimediabilmente macchiata. Pietro ha infatti in passato ucciso prima la madre e poi il padre. Lo ha fatto, come confesserà nel corso del racconto, per motivi di pura e sincera pietas. Ciò però non gli impedirà di soffrire enormemente e – soprattutto – di portare a compimento ciò che già da tempo aveva molto razionalmente programmato: un suicidio. Con tale gesto egli intende, più che assumersi il castigo per gli atti commessi, liberare il proprio figlio da quello che altrimenti sarebbe per lui un destino segnato; egli intende in sostanza evitare che il figlio possa diventare anch’egli l’esecutore materiale di una sentenza definitiva e inappellabile: uccidere il proprio padre.

Senza più Dio, senza i suoi pur fragili succedanei, ciò che sembra restare appannaggio del protagonista di questo racconto, è il dovere di gestire in modo responsabile il gesto che necessariamente sancisce il passaggio intergenerazionale, la trasmissione della colpa di padre in figlio.

Ed è precisamente in tal senso che è possibile inserire il sensibile e complesso carattere questo tormentato personaggio in quella lunga tradizione di narrazioni che mettono al centro della riflessione il rapporto dell’uomo con la colpa e il castigo, tradizione che ha ovviamente quale ineguagliabile maestro Fedor M. Dostoevskij.

Nel romanzo-capolavoro Delitto e Castigo, come è noto, l’evento chiave è rappresentato da un duplice omicidio a scopo di rapina: quello premeditato di un’avida vecchia usuraia e quello imprevisto della sua mite sorella più giovane, per sua sfortuna comparsa sulla scena del delitto appena compiuto. L’autore delle uccisioni è il protagonista del romanzo, un indigente studente pietroburghese che risponde al nome di Rodion Romanovic Raskolnikov. Tra le pagine che hanno reso immortale il romanzo di Dostojevskij vanno senz’altro annoverate quelle in cui Raskolnikov tormenta se stesso in una serie di riflessioni e azioni volte a cercare di sostenere in qualche modo il peso del suo delitto. Una delle questioni centrali è, in estrema sintesi – come ha notato anche con molta acutezza Milan Kundera –, quella della ricerca del castigo. Una volta commesso un delitto, il prezzo da pagare, se si riesce a sfuggire alla condanna prevista dalla società alla quale si appartiene, è praticamente insostenibile: dalla continua paura di essere scoperti (e dalle conseguenze in termini di solitudine esistenziale che ne consegue) al logoramento nervoso dovuto allo stress che accompagna ogni situazione dell’esistenza e quindi l’impossibilità di poter stabilire anche rapporti di tipo affettivo sufficientemente sereni.

Il vero castigo, insomma, non è tanto la condanna giudiziaria, la privazione della libertà attraverso l’incarcerazione, quanto il tormento interiore che lo accompagnerà in seguito al delitto commesso.

Senza il controllo divino – sembra voler suggerire il grande maestro russo – la società sembra non essere in grado di poter elaborare modelli morali sufficienti ad evitare determinati comportamenti devianti, primo tra tutti l’assassinio. L’affermazione dell’autonomia dell’individuo, se spinta oltre una legge divina, può condurre a situazioni che declassano e depravano l’uomo alla condizione incivile. Per poter meritare l’autonomia appare dunque necessario comunque un riferimento spirituale. Alla fine del romanzo, la morte della madre del protagonista suggerirà, tra le possibili vie di salvezza, una crisi ed una sorta di fuga nel ritorno ad un modello di espiazione cristiana.

Qualche anno dopo ci sarà però, tra l’altro, anche la psicoanalisi a fornire qualche barlume di luce razionalizzante alla ricerca di modelli di possibile riferimento per l’uomo moderno, alla ricerca di una sua più sostenibile autonomia. Non più “salvezza attraverso la sofferenza” cristiana, ma “salvezza attraverso la conoscenza profonda di sé stessi”; una profondità ignota anche a sé stessi, profondità sul cui fondo si muove quel nuovo ente chiamato inconscio.

Su questo territorio un nuovo Raskolnikov può essere considerato emblematico, quello che ci presenta il grande scrittore francese (anch’egli di origini russe, in verità) Emmanuel Bove, sotto le sembianze di Pierre Changarnier. In un romanzo breve il cui titolo è proprio quello del protagonista del capolavoro di Dostojevskij (Un Raskolnikov, appunto, apparso nel 1932), Changarnier, in un momento di apparente follia, pretende di essere condannato per un delitto che sembrerebbe aver commesso solo nella sua mente, in uno stato di sogno o comunque di “incoscienza”. Bove sembra voler suggerire che l’eroe dostojevskiano, trasponendosi in una nuova era, in una modernità più matura, abbia definitivamente perso di vista quel che restava di Dio e lo abbia sostituito (in questo affidandosi alla nuova religione della psicoanalisi) con il padre (biologico o socioculturale che sia); un padre responsabile ma non più onnisciente e onnipotente, un padre con il quale potersi e doversi confrontare ad armi sempre più pari, un padre unico possibile responsabile di una possibile sentenza o giudizio sulle proprie azioni, l’unico che potrebbe consentire di poter espiare le colpe (vere o presunte diventa quasi indifferente) connesse al proprio agire.

Una intuizione straordinaria, quella del sottovalutatissimo scrittore francese, che lascia prefigurare una svolta epocale nel rapporto con l’autorità, svolta che poi effettivamente si realizzerà e che accompagnerà definitivamente, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri, tutti i processi di socializzazione che caratterizzeranno la formazione dell’identità individuale nelle società occidentali.

Ancora una volta, dunque, un nuovo Raskolnikov, un nuovo personaggio che cerca disperatamente di poter espiare le proprie colpe (vere o presunte), di poter legittimare e definire la propria autonomia e, con essa, il senso della propria esistenza, lo ritroviamo rappresentato nel Pietro Rinaldi di Pecchinenda, ma in una nuova e rinnovata veste, più consona alle recenti innovazioni emerse nell’ambito della cultura occidentale. Innanzitutto – osserverei – Pietro Rinaldi ha un’identità molteplice; nella sua confessione-autobiografia dichiara fin da subito di essere “oggi” Pietro Rinaldi, ma di “essere stato” anche “altri”: Altri nomi (Aniello Barile, poi Pedro e solo alla fine Pietro), altre biografie, altre relazioni (mogli, compagne, figli, amici, colleghi…). Inoltre egli non avrà più, di fronte a sé, come figura d’autorità e giudice né il Dio trascendente, né quello interiorizzato, né tanto meno il Padre (naturale o simbolico), ma solo sé stesso, un sé stesso trasfigurato in scrittura; e la richiesta del perdono – unica possibilità, nel suo caso, per poter espiare la colpa, una volta ucciso definitivamente ogni possibile padre, e in vista del proprio suicidio, è diventato il figlio… in quella che sembra una inversione generazionale dei rapporti di autorità (già intuita ad esempio da Pascal Brukner…) assai indicativa e significativa delle complesse e talvolta incomprensibili trasformazioni socio-culturali di questa tarda modernità.

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