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L’invisibile ovunque, Wu Ming

 «Il libro è costituito da quattro racconti in una sorta di progressione. Sono tutti e quattro tentativi di evadere dalla guerra una volta che ci si trova dentro; quindi non esempi di diserzione preventiva ma esempi di persone che trovandosi coinvolte nella guerra cercano di scamparla» 
Dall'intervista dei quattro autori bolognesi a Repubblica
 
Anche il collettivo Wu Ming dedica un suo romanzo alla grande guerra, il cui centenario è stato ricordato l'anno scorso.
La prima guerra meccanizzata, coi soldati mandati al massacro da ufficiali inetti che rispondevano a piani di battaglia di generali incapaci. Per strapparsi l'un l'altro quei pochi metri tra una trincea e l'altra, nella terra di nessuno.
Falciati da una mitragliatrice, feriti da uno shrapnel, dilaniati da una bomba, colpiti in fronte da un cecchino o asfissiati dal gas… Ci sono tanti modi di morire in battaglia e alla stessa maniera ci sono tanti modi di raccontare la guerra e la battaglia.
Quello epico e retorico che parla degli eroi, del sangue versato, degli arditi col pugnale in bocca.
E quello che hanno scelto i quattro componenti del collettivo, nei quattro racconti per la prima volta scritti da uno solo del gruppo.
C'è la prima guerra mondiale ma vista da una prospettiva diversa: si raccontano storie di persone che l'hanno attraversata la guerra e i campi di battaglia e, di fronte all'orrore della morte hanno cercato una fuga. Ciascuno di loro in modo diverso.
 
Il primo racconto è asciutto e veloce, racconta di due fratelli che vanno al fronte, il primo perché chiamato, il secondo per scelta, per scappare dalla vita dei campi.
– Andiamo a morire, – aggiunse Adelmo dopo un lungo silenzio, 
– Chi l’ha detto? 
– C’è il caso.– C’è il caso anche di tornare. 
– Ah sì, il caso c’è anche di tornare. Già.
 
Adelmo vede morire uno dopo l'altro i compagni di reparto, vede la vigliaccheria, vede quanti si rifiutano di sparare al nemico.
“Questo era insopportabile: morire così, uno tra migliaia, come non si fosse mai nati. Della fotografia che avevano preso alla compagnia il giorno che li avevano dislocati in prima linea, pochi ne erano rimasti vivi. Non era passato nemmeno un mese”.

Per sfuggire a tutto questo, Adelmo entra negli Arditi e riesce a sopravvivere alla battaglia, imparando ad uccidere in tutti i modi, per tornare a casa capace solo di far quello.

“Vado a caccia adesso”. Si conclude così, lasciando aperto il suo futuro di “uomo-arma che un potere futuro potrà usare a suo piacimento”.
 
Il secondo racconto parte dai miti greci, da Ulisse uomo dal multiforme ingegno che per sfuggire la guerra si finge pazzo. Per essere poi scoperto, in modo forse banale da Palamede (perché forse, in fondo, Ulisse alla guerra voleva andarci...).
Anche Giovanni, sottotenente, proveniente da una famiglia borghese (e non contadina come l'Adelmo), userà lo stesso marchingegno per sfuggire alla guerra:
È dunque la patria, per prima , che mi ha imposto di essere quello che non sono. Un assassino, un guerriero, uno che mantiene la calma a vedere uomini col ventre squarciato”.

Si fingerà pazzo, verrà ricoverato nel sanatorio di Ferrara e matto ci diventerà per davvero, diventando “un disperso, un soldato smarrito sul fronte più interno di tutti. Presente e assente, fantasma in carne e ossa...”
 
Il terzo romanzo abbandona il fronte italiano, per passare a quello francese: cambia il fronte e anche lo stile: si racconta dell'incontro (vero? inventato?) tra lo scrittore André Breton e la sorella di Jacques Vaché, di cui ne ignorava l'esistenza dopo che era andato al fronte, per morire al termine della guerra. Anche se suicida, anche lui è una vittima della guerra, che non perdona, come la sua famiglia. Aveva scritto, sulla guerra “niente uccide un uomo come l'obbligo di rappresentare una nazione”.
 
L'ultimo racconto è quasi un saggio, su un episodio della grande guerra che non conoscevo e che, immagino, in pochi fossero a conoscenza: si parla della Compagnia Camaleonte, istituita nel gennaio 1918 in seno al I° Reggimento Genio Zappatori quale esperimento pilota di camouflage e guerra mimetica del Regio Esercito.
Anche qui parliamo di una forma di fuga dai massacri inutili a cui venivano mandati i nostri fanti, per la stupida guerra di conquista decisa dai nostri generali (come il generalissimo Cadorna). Pena la fucilazione alle spalle, se si fossero arresi, e la decimazione del loro reparto. Stupida guerra.
L'idea del mimetismo nasce dall'utopia di nascondere soldati alla vista del nemico, rendendoli omogenei al terreno circostante.
 
L'intuizione è del pittore Bonamore, dopo una notte e un giorno passati nella terra di mezzo tra le trincee, invisibile agli occhi degli austriaci, sebbene ferito e impossibilitato a muoversi, perché con la divisa impregnata di fango. Perché non rendere anche i nostri soldati “invisibili ovunque” al nemico, per farli avvicinare alle linee nemiche senza essere colpiti?
In Francia, il pittore De Scevola aveva avuto la stessa intuizione, ma solo per camuffare i cannoni, con dei teli colorati, perché le macchine valgono più degli uomini.
De Scevola arruola pittori per il suo lavoro, l'arte va alla guerra.
Sono i mesi della disfatta di Caporetto, quando i commandos di Rommel aggirarono le alte vette per irrompere nella pianura padana e circondare le truppe, nel 1917.
 
Nel 1918 viene ufficialmente istituita la compagnia Camaleonte, che parteciperà alla famosa battaglia di Monte Grappa, che si concluse, dopo altre migliaia di morti per la stupida idea di attaccare in salita gli austriaci.
 
Dopo la battaglia, il nome di Bonamore e della mimetizzazione sparì dagli annali, dalla storia, dai libri: una damnatio memoriae dovuta al fatto che la gloria doveva brillare solo per gli arditi (di Adelmo Cantelli, il primo racconto).
Per poi riapparire, come una sorta di giustizia storica postuma, nelle memorie del generale Von Goglia, comandante delle armate a Belluno.
Dove parlò di “soldati spuntati dalla terra”: forse erano proprio i soldati di Bonamore: ci piace immaginare – scrive l'autore del racconto – che così abbia trovato modo di realizzare il suo gesto artistico 
“trasformando l'arte in vita salvata, strategia di fuga non già indietro, verso la fucilazione, ma in avanti, verso una vittoria paradossale, senza morti”.

La scheda del libro sul sito di Einaudi (qui il link per scaricare il pdf del primo capitolo), il blog dei Wu Ming.

Qui l'intervista di Michele Smargiassi su Repubblica
 
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Questo articolo è stato pubblicato qui

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