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L’insostenibile conciliabilità tra Chiesa e privacy

galantino

di Massimo Maiurana

L’intervento di mons. Galantino, al recente convegno dell’Aiart, sul tema della privacy può essere archiviato senza alcun indugio nella categoria “idee confuse”, tanto sono strampalate e perfino contraddittorie le sue dichiarazioni. Sarà pure colpa della tendenza a discettare di questioni istituzionali senza averne cognizione di causa, cosa sempre più frequente in epoca bergogliana, ma non è semplicemente possibile dichiarare allo stesso tempo, e nello stesso luogo, che la rete rappresenta una minaccia per la privacy delle persone e che il Garante per la protezione dei dati personali è un ente inutile. O almeno non è ammissibile farlo se l’intenzione è quella di esprimere un’opinione che abbia un minimo di senso. E questo a prescindere dalla confusione tra il diritto alla riservatezza delle persone e alla protezione dei loro dati, cosa purtroppo abbastanza comune.

Lo dice chiaramente lo stesso Antonello Soro, che del Garante ne è presidente: “È come se la diffusione dei delitti suggerisse di sopprimere la Polizia”. Eppure la premessa era più che giusta, perché effettivamente con la diffusione delle tecnologie di rete, e in particolare con l’avvento dei social network e del cloud computing, il nostro modo di interagire con gli altri e di gestire i nostri dati è mutato radicalmente, ponendo seri rischi per gli stessi dati e per la nostra riservatezza. Ma proprio per questo gli organismi a tutela degli utenti andrebbero semmai potenziati, andrebbero messi nelle condizioni di poter sopperire alla fisiologica lentezza del processo legislativo, che poco si concilia con la rapidità evolutiva del mondo digitale. Non sbrigativamente bollati come inutili. E pure con l’aggravante di averlo fatto non come risposta istintiva all’incalzare del giornalista di turno, ammesso che esistano ancora giornalisti disposti a incalzare il clero, ma in un discorso pubblico che si presume abbia richiesto un minimo di preparazione.

A dirla tutta Soro ha proseguito dicendo “è come se la persistenza di molti peccatori suggerisse l’inutilità della Chiesa”, ma qui l’analogia si applica molto meno non tanto perché l’attività della Chiesa non può essere ridotta ad argine per i peccatori, il che è innegabile visti i suoi molteplici interessi a cominciare da quelli economici, ma piuttosto perché il peccatore è tale solo per la Chiesa e poi perché non c’è nessuna persona danneggiata dalla sua opera peccaminosa. A meno che il peccato non sia anche reato, e in quel caso non sarebbe certo la Chiesa a tutelare il danneggiato ma sarebbero gli organi giudiziari. Fortunatamente.

E pensare che nemmeno in questo campo siamo stati pionieri, diciamo pure che siamo arrivati tra gli ultimi. L’istituzione del Garante avvenne in Italia nel 1996, contestualmente all’emanazione della prima legge sulla tutela dei dati personali, in ottemperanza a una precisa direttiva europea e per il rispetto della famosa convenzione di Schengen, che per intenderci sarebbe quella che ci consente di muoverci liberamente in quasi tutto il continente senza essere soggetti a controlli personali. In sostanza non si tratta di farina del sacco italiano ma di quello europeo, da cui è fuoriuscito anche un Garante europeo a tutela dei dati gestiti da istituzioni comunitarie, e da cui verrà fuori anche un nuovo regolamento valido in tutti gli Stati dell’UE. Un atto dovuto da cui non è stato praticamente possibile smarcarsi e all’interno del quale, tanto per cambiare, sono state in seguito inserite specifiche clausole per rendere le confessioni religiose soggetti privilegiati, in riferimento al trattamento dei dati sensibili.

La posizione della Chiesa riguardo ai dati personali è sempre stata molto semplice: le appartengono. Basti pensare al sacramento della confessione, spacciato da sempre come momento di penitenza in cui il ruolo del prete sarebbe quello di mero intermediario con Dio, che evidentemente tanto onnipotente non dev’essere se ha bisogno di qualcuno a cui affidare il compito, ma che di fatto ha rappresentato una potente forma di controllo sociale. Probabilmente per Galantino la confessione non costituisce minaccia per la riservatezza delle persone, ma sarebbe comunque interessante vedere come la giustificherebbe da questo punto di vista. E che dire dei dati dei figli strappati alle loro madri e affidati in adozione, come quello di Philomena Lee dalla cui storia fu tratto il film vincitore del nostro Premio Brian? Sia alle madri che alle figlie veniva negato il diritto di conoscersi reciprocamente, a richiesta specifica si opponeva un netto rifiuto, mentre oggi, nel disperato tentativo di contrastare la fecondazione eterologa, i cattolici assimilano pretestuosamente, e indecentemente, donatori di gameti a genitori consapevoli rivendicando il presunto diritto dei figli di conoscere i propri genitori biologici.

Ma sicuramente riguardo alla legge sulla tutela dei dati personalila vera spina nel fianco della Chiesa cattolica è lo sbattezzo. È infatti sul principio della tutela dei dati personali, e sui numerosi e vittoriosi ricorsi al Garante promossi dall’Uaar, che si basa la procedura per ottenere di non essere più considerati appartenenti alla Chiesa cattolica. Procedura che la stessa Chiesa ha dovuto infine riconoscere obtorto collo, perché dal suo punto di vista il battezzato è proprietà della Chiesa tanto quanto lo sono i suoi dati, e il porsi al di fuori di essa configura il peccato di apostasia. Non a caso ancora oggi molti parroci e vicariati oppongono ingiustificate resistenze alle migliaia di richieste di sbattezzo. Forse era anche a questo che pensava Galantino nel suo discorso quando definiva inutile il Garante. E in effetti lo sbattezzo potrebbe pure esserlo, inutile, se solo la Chiesa si comportasse come qualunque altra associazione di persone e consentisse a chiunque di ritirare la propria adesione in qualsiasi momento. Il punto è che per farlo dovrebbe essere rispettosa della privacy.

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

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