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L’immigrazione in Italia. Intervista a don Roberto Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana

Incontro don Roberto nel suo ufficio a Milano. Pur essendo arrivata con quasi venti minuti di ritardo, mi accoglie disponibile con il sorriso e quello sguardo acuto e intelligente che hanno tutti i preti di frontiera. Il suo, quello della Caritas Ambrosiana, è un punto di vista importante, è quella voce indipendente che mi può aiutare a capire meglio qual è oggi in Italia la situazione degli immigrati e del rispetto dei loro diritti.

Partiamo dal Rapporto Immigrazione 2013. Mi ha colpito il fatto che il flusso migratorio in Italia è pressoché fermo: gli ingressi sono pareggiati dalle partenze. Ma questo non è proprio lo stesso messaggio che mi sembra essere veicolato dai mezzi di informazione, per i quali l’Italia sarebbe oggetto di una sorta di “invasione”. Qual è il motivo secondo lei? È solo superficialità o c’è dell’altro?

Il dato vero è che certamente la crisi economica di questi ultimi anni ha comportato da un lato una contrazione del fenomeno migratorio in ingresso e dall’altro è stata la causa di un aumento del numero delle persone che hanno deciso di fare ritorno nei propri Paesi di origine. Il saldo complessivo rimane comunque positivo, non fosse altro per il semplice fatto che le famiglie di immigrati sono più prolifiche di quelle italiane. Questa come considerazione di sfondo.

Rispetto invece alla risonanza sui media, è chiaro che fa più notizia il dato dell’“invasione” perché in un certo senso confina il fenomeno migratorio sempre nell’ambito dell’emergenza. Il mondo dei media vive di emergenzialità: se non riesce a mettere il marchio dell’emergenza a una notizia sembra che questa non possa essere ascoltata. Sto ovviamente semplificando, ma anche analizzare la terminologia è interessante. Ormai il fenomeno migratorio deve essere purgato dal concetto di emergenza perché è un fenomeno assolutamente strutturale, come dicono i sociologi. Basta parlare di emergenza: il fenomeno dell’immigrazione è qualcosa con cui ormai facciamo i conti tutti i giorni. Continuare a parlare di emergenza fa comodo non solo al settore dei media, che vive sempre di più di sensazionalismo, ma anche al mondo della politica: perché fino a quando possiamo dipingere questo fenomeno come improvviso, inaspettato, inatteso allora possiamo sempre giustificarci per non essere pronti, possiamo sempre dire di essere stati colti di sorpresa. Ma se invece ammettiamo che il fenomeno dell’immigrazione è qualcosa di strutturale, di normale, di atteso e poi il risultato del nostro intervento è inadeguato, allora uno può puntare il dito e dire: ma allora, scusate, se ve lo aspettavate perché non vi siete attrezzati? Ecco perché credo che, e sto sempre semplificando la questione, faccia alla fine sempre comodo parlare di emergenza quando si parla di immigrazione.migranti2

Rimanendo sempre in tema di flussi migratori, l’Italia risulta avere una percentuale di cittadini stranieri residenti pari al 14%, superiore a quella di Francia e Regno Unito dove però il carattere multietnico della popolazione sembra essere molto più evidente. Quanto influisce su questo la difficoltà per un cittadino straniero di ottenere la cittadinanza italiana? A che punto è il dibattito sulla revisione della vigente legge sul diritto di cittadinanza?

Che l’Italia sul tema della cittadinanza sia assolutamente indietro non ci sono dubbi. Un bambino figlio di immigrati, per avere la cittadinanza italiana, deve prima raggiungere il diciottesimo anno di età. Poi, una volta raggiunta la maggiore età, deve comunque fare una domanda e sottoporsi a tutta una serie di lungaggini burocratiche. Nel frattempo deve anche stare molto attento perché, se per esempio trascorre un periodo di vacanza un po’ troppo lungo nel Paese di origine dei suoi genitori, rischia di perdere ogni diritto in quanto i diciotto anni di permanenza devono essere continuativi. Diciamola in poche parole: la normativa italiana non è una normativa “friendly” rispetto al discorso della cittadinanza, perché da noi vige quel principio giuridico che preferisce dare la priorità al “sangue” piuttosto che al “territorio”. Se tu sei nato da nonni italiani e vivi in Argentina, ma in Italia non ci sei mai venuto e non hai mai avuto a che fare con il nostro Paese, anche solo in virtù del sangue tu sei cittadino italiano. Se invece tu sei nato in Italia, ma da genitori stranieri, e sei sempre cresciuto qui, sei andato a scuola qui e con ogni probabilità il tuo futuro è in Italia, tutti questi non sono oggi motivi sufficienti perché tu possa diventare cittadino italiano. Ecco noi crediamo che, anche senza creare meccanismi automatici per cui chi nasce in Italia è di conseguenza cittadino italiano, si possa però arrivare alla definizione di criteri di maggiore buon senso: un bambino che ormai ha fatto in Italia tutto il ciclo della scuola primaria, molto verosimilmente continuerà a crescere nel nostro Paese e dunque facciamogli sentire che è dei nostri, diamogli la sensazione che anche lui può partecipare alla costruzione e allo sviluppo di un Paese che è anche il suo.

C’è stata due anni fa una campagna nazionale, che ha ottenuto anche consensi importanti, di sensibilizzazione e di pressione affinché il Parlamento elaborasse un progetto di revisione dell’attuale legge sul diritto di cittadinanza. Ma tutto questo sembra ora essere caduto nel dimenticatoio. Sono comunque convinto che, prima di arrivare a una legge, c’è da fare un lavoro di educazione della collettività e del modo di pensare degli italiani. Quand’anche ci fosse una legge che favorisca la cittadinanza dei bambini nati in Italia da genitori stranieri, o che sono arrivati in Italia da piccoli, non sarà questa a far crescere il tessuto sociale di un Paese. È però necessario che le forze politiche la smettano di usare il tema dell’immigrazione come un tema elettoralistico. Al di là di tutto, mi sembra che qui stia il problema: nel fatto che i temi sull’immigrazione continuano a essere solo ottimi temi di tipo elettoralistico, che parlano alla pancia degli italiani, e che dunque vengono enfatizzati a tal punto che non è mai possibile discuterne in quel clima di serenità necessario per trovare delle soluzioni di buon senso, che possano essere condivise da tutti.

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Gli ultimi dati disponibili ad oggi ci dicono che nel 2014 sono sbarcati sulle nostre coste oltre 85.000 profughi tra uomini, donne e bambini. I morti accertati durante queste traversate in mare sono circa 400 ma potrebbero essere molti di più, perché questo è un dato che nessuno conosce con certezza. Qual è il suo giudizio sull’operazione “Mare Nostrum”, con la quale il governo italiano sta affrontando questo problema? Il rimpallo di responsabilità tra il governo italiano e l’Unione Europea ha un fondo di verità o è solo un modo per non assumersi le proprie responsabilità?

C’è indubbiamente una latitanza o, meglio, una scarsa visibilità, di un intervento progettuale sia da parte del governo italiano sia da parte delle autorità europee. L’operazione “Mare Nostrum” è un’operazione paradossalmente ambigua. Da un lato è un sistema di intervento fondamentale per salvare queste persone. Noi non sappiamo quanti immigrati in questi decenni sono finiti in fondo al mare Mediterraneo: ci sono delle stime che parlano di 20mila. Ma non lo sappiamo. “Mare Nostrum” ha il pregio di salvarli, nonostante alcune disgrazie ancora accadano. Dall’altro lato però, e qui sta l’ambiguità, una volta salvate e portate sul territorio italiano, queste persone vengono in qualche modo abbandonate a se stesse, non c’è una effettiva capacità di prendersi cura di loro. L’esempio dei profughi siriani [ndr.] è emblematico. Una volta aiutati a sbarcare sulle nostre coste, in migliaia, fra cui tantissimi bambini, hanno attraversato l’Italia da clandestini, mentre tutte le autorità semplicemente si voltavano dall’altra parte: nessuna intercettazione, nessuna segnalazione, nessuna identificazione. Però li abbiamo ospitati nelle nostre strutture, li stiamo tuttora ospitando, con il beneplacito delle prefetture, delle questure, della polizia, del ministero degli Interni: ne sono perfettamente al corrente ma nessuno ha voluto intervenire per identificarli, perché così facendo queste persone possono andare verso i Paesi del Nord Europa senza correre il rischio magari, una volta intercettati in Germania o in Austria, di dover ritornare in Italia. Secondo infatti il cosiddetto “accordo di Dublino”, una norma che francamente meriterebbe una profonda revisione, se uno straniero arriva in un Paese dell’Unione Europea, e lì viene intercettato e identificato, da quel Paese non si può muovere fino a quando non avrà ricevuto un titolo di soggiorno. In Italia questo avviene anche dopo due anni e nel frattempo queste persone rimangono in una specie di limbo. Per evitare tutto questo con le migliaia di profughi siriani le autorità italiane hanno deciso di chiudere gli occhi: ci siamo occupati di loro ma facendo in qualche modo finta che non esistessero.

“Mare Nostrum” ha sicuramente rappresentato un salto culturale importante rispetto alla politica dei respingimenti che fino a pochissimi anni fa ributtava nelle braccia di Gheddafi tutte queste persone che arrivavano dalla Libia. Prima noi, infatti, le intercettavamo e le rimandavamo in Libia, operando una scelta a dir poco blasfema, disumana. “Mare Nostrum”, che ha almeno il merito di salvare queste persone, però è soltanto un primo passo. C’è molto di più da fare per arrivare, ad esempio, a istituire quei corridoi umanitari che ci permetterebbero anche di tagliare l’erba sotto i piedi alle organizzazioni criminali che si arricchiscono con i soldi di questa gente, costretta a pagare prima per poter prendere un barcone e poi, arrivata in Italia, per affidarsi ai questi passatori che li portano in altri Paesi europei. Quando noi facciamo finta di non vederli autorizziamo queste persone a continuare a foraggiare la criminalità organizzata.

Sempre nel Rapporto Immigrazione 2013 ho letto di una forte critica nei confronti dei CIE (Centri di Identificazione e di Espulsione) in quanto in queste strutture non verrebbero rispettati i diritti costituzionali. A ottobre inoltre è previsto a Ginevra il secondo esame periodico universale dell’Italia davanti al Consiglio dei diritti umani. Tra i punti sui quali l’Italia era già stata sollecitata a intervenire nel 2012 c’è proprio la difesa dei diritti dei migranti. Secondo lei qual è ad oggi la situazione? È migliorata negli ultimi 2 anni?

Perché nei CIE ci finisci anche senza aver commesso nessun reato, senza aver rubato neppure una mela. Semplicemente perché ti è scaduto il permesso di soggiorno. Mettiamo che tu sei un immigrato che vive in Italia con un regolare permesso di soggiorno. Hai anche un lavoro che però a un certo punto perdi. Nel frattempo ti scade il permesso di soggiorno che però, poiché non hai più un lavoro, non riesci a rinnovare. Formalmente sei diventato un clandestino. Se ti ferma la polizia, anche se tu non hai commesso nessun reato penale ma soltanto un reato amministrativo (come se avessi parcheggiato in divieto di sosta), ti prendono e ti mettono nel CIE. Il problema è che nei CIE tu ci stai 18 mesi: sei privato della tua libertà per 18 mesi, sei messo insieme a veri delinquenti in uno stato di promiscuità che ti espone a finire tra le braccia della malavita. E nei CIE, in attesa della tua identificazione e poi della tua espulsione, tu non hai nemmeno quelle garanzie costituzionali che vengono riconosciute ai detenuti normali. Espulsioni peraltro che in questi anni sono avvenute per delle percentuali assolutamente infinitesimali rispetto alle persone rinchiuse nei CIE. E questo per un motivo molto semplice, che costano un sacco di soldi: espellere vuol dire organizzare degli aerei con poliziotti per l’accompagnamento. E poi bisogna che le persone che vengono espulse appartengano a Paesi con i quali abbiamo un accordo. Perché non è possibile rimpatriare chiunque: se tu non hai un accordo con quello Stato da cui proviene l’immigrato clandestino, non puoi fare nulla. I CIE quindi non solo hanno dimostrato di essere assolutamente inefficaci rispetto al contrasto dell’immigrazione clandestina, ma sono anche stati causa di infinite sofferenze e di violazione dei diritti costituzionali.

Con quello che sta succedendo da gennaio ad oggi non possiamo proprio dire che la situazione in Italia in relazione al rispetto dei diritti dei migranti sia migliorata. E le ragioni sono diverse: perché, come dicevo prima, le forze politiche utilizzano il tema dell’immigrazione a scopo propagandistico per aumentare il senso di insicurezza dei cittadini; perché in alcune parti d’Italia gli immigrati clandestini vengono sfruttati da imprenditori italianissimi che li fanno lavorare come degli animali per 10 euro al giorno in condizioni subumane (e qui mi sembra che siamo totalmente disarmati per contrastare questo tipo di fenomeno); perché in Italia manca ancora una normativa che ci permetta, in una situazione come quella che stiamo vivendo di afflussi massicci, di distribuire equamente queste presenze su tutto il territorio senza doverci sottoporre al veto di alcuni comuni che, in nome di slogan indicibili del tipo “non un euro per questi clandestini”, impediscono un’equa distribuzione di queste presenze sulla base della dimensione dei comuni stessi. Fino a quando saranno solo alcuni comuni ad assumersi la responsabilità di accogliere e ospitare gli immigrati, si continueranno a creare quelle situazioni di eccessiva concentrazione che generano un crescente senso di insicurezza nei cittadini. Questo è uno di quei temi sui quali non può esistere il federalismo assoluto: deve esistere un potere di governo centrale che riconoscendo che si tratta di un problema di tutto il Paese, distribuisce queste presenze in modo equilibrato su tutto il territorio. E questo discorso deve valere pari pari per tutti gli Stati europei.

A fine 2013 i minori non accompagnati presenti in Italia erano circa 6.500. Secondo Save The Children nei primi sei mesi di quest’anno sono arrivati già più di 3.000 minori non accompagnati, di cui 2.000 sono bambini siriani con un’età media di 5 anni. Questo è senz’altro uno degli aspetti più drammatici e toccanti dell’immigrazione. C’è nella sua esperienza qualche storia legata al fenomeno dei minori non accompagnati che l’ha particolarmente colpita?

Io ho avuto l’opportunità – non posso certo dire la fortuna – di ascoltare le storie di alcune famiglie siriane di rifugiati che abbiamo ospitato nei nostri centri qui a Milano. Mi ricordo il racconto di quel papà con in braccio il suo bambino appena arrivato dall’ospedale di Catania, dove era stato ricoverato perché era rimasto ustionato durante un incendio scoppiato sul barcone che li stava portando verso l’Italia. O il racconto di quella mamma e dei suoi figli su come si era svolto l’attraversamento del canale di Sicilia: l’arrivo in Libia, la salita sul barcone, i giorni di attesa sul barcone stesso navigando in tondo al largo delle coste libiche in attesa che l’imbarcazione fosse piena, stracolma di uomini, donne e bambini. E poi, in uno stato di assoluta precarietà, in condizioni igieniche drammatiche, senza acqua, la partenza verso le coste italiane, con la speranza di essere intercettati e portati in salvo in Italia il più presto possibile. Ascoltare questi racconti è disturbante, inquietante e fa ribollire di rabbia il sangue nelle vene pensare che ci siano organizzazioni criminali che si arricchiscono con il traffico di questi esseri umani.

Foto: daSud onlus, Flickr

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