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L’emergenza sanitaria di agosto? La mancanza di cappellani

Agosto è sempre stato un mese difficile da gestire, almeno in Italia dove è da tempo, da quando l’Impero Romano era nelle mani di Ottaviano Augusto, il mese delle ferie per antonomasia. Le città sono meno caotiche, più vivibili, è vero, ma la medaglia ha il suo rovescio. Nel settore dei servizi essenziali si cerca di mantenere un livello di operatività appena sufficiente ricorrendo a turnazioni. Tuttavia il personale risulta ridotto e i disagi sono inversamente proporzionali a esso.

Pensando alle possibili criticità in ambito sanitario vengono in mente cose come i medici sostituti, che non conoscendo le problematiche dei pazienti si limitano a fare da tampone; la diminuzione delle donazioni di sangue, a cui si cerca di porre rimedio con emoteche mobili nelle località balneari; le farmacie chiuse, e vai con la caccia a quella di turno; le corsie degli ospedali che si svuotano di personale medico, con gli annessi problemi per quei pazienti che proprio non possono rimandare a settembre le loro terapie. No, le esigenze di culto non vengono in mente. In genere.

Qualcuno però effettivamente il problema se lo pone, può suonare strano ma è così. Se lo è posto il ginecologo Leonardo Damiani, operante all’ospedale “Di Venere” di Bari, secondo cui la scarsità di sacerdoti nelle corsie del suo nosocomio crea notevoli disagi ai pazienti. E anche agli operatori sanitari, evidentemente, che come lui passano comunque buona parte del loro tempo tra i reparti. Non che ci sia qualcosa di sbagliato nella personale scala delle priorità del medico, intendiamoci; ognuno valuta le cose a modo proprio, diversamente dagli altri. Alcune delle affermazioni fatte da Damiani descrivono però una percezione delle cose che merita di essere analizzata e commentata.

Damiani sostiene che gli ammalati «hanno il diritto di essere sostenuti nella sofferenza, anche attraverso la partecipazione alla Santa Messa. Sono loro che lo desiderano e lo richiedono». Non metto affatto in dubbio che siano essi stessi a chiederlo, e non metto nemmeno in dubbio che tra i loro diritti rientri anche quello di essere sostenuti nel morale, nella psiche. Ma la messa che c’entra in tutto questo? Capisco la preghiera, capisco il supporto spirituale, cose gestibili individualmente insomma. Non capisco invece la messa, che non mi pare possa essere annoverata tra i diritti fondamentali del malato. Anche perché si parla di un rito cattolico, un rito cioè che riguarda solo una parte degli utenti, non tutti. Magari anche maggioritaria, pur considerando l’ampissima fetta di non praticanti, ma ben lontana dalla totalità. Per gli altri, per quelli che professano un culto diverso o nessun culto, i diritti riconosciuti non sono gli stessi. Loro non hanno di solito nessuna possibilità nemmeno di contare su un assistente, figuriamoci prendere parte a una celebrazione. In pratica, dei malati di categoria inferiore.

La vera questione a questo punto è: vengono privati di diritti gli acattolici, o vengono piuttosto concessi dei privilegi ai cattolici? Per quanto mi riguarda non c’è dubbio, è vera la seconda. La “vergogna”, giusto per usare la stessa definizione usata da Damiani, è in realtà il fatto che si sia creata una categoria di malati di serie A, che possono contare su cappellani retribuiti, su un certo numero di assistenti spirituali retribuiti, su locali adibiti a cappelle rigorosamente cattoliche in tutti gli ospedali, magari anche su messe celebrate direttamente in corsia e in pompa magna. E su crocifissi ovunque, tanto per ribadire lo status di categoria privilegiata.

Poi ci sono i malati di serie B, che qualora desiderino un assistente devono farne esplicita richiesta e sperare che la direzione dell’ospedale non abbia nulla in contrario, sapendo a priori che non è previsto nessun compenso per chi verrà a portare conforto. Per inciso, tra questi assistenti rientrano anche quelli laici dell’Uaar nei pochi (ma in aumento) ospedali con cui è attiva una convenzione, tutti naturalmente volontari. Laddove non vi è convenzione rimane la possibilità dell’assistenza morale telefonica tramite numero verde.

Su una cosa però Damiani ha certamente ragione: risolvere il “problema” della carenza di personale religioso rientra tra i compiti della diocesi. Giustamente Damiani non fa mai riferimento all’ospedale riguardo all’assicurazione del conforto spirituale. Lo fa, nella stessa intervista, quando parla della mancata erogazione della mensa, quindi di servizi al personale, non quando parla di servizi religiosi. E del resto, ci mancherebbe che l’Asl debba pure sopperire all’assenza di preti mantenuti non solo da malati sia di serie A che di serie B, ma anche da tutti gli altri cittadini, a prescindere dalla loro convinzione. Chi ha scritto l’articolo ha però anteposto la questione religiosa all’altra, ha dato alla prima maggiore enfasi, anche se poi ha commentato ammettendo che negare la mensa è più grave che negare il prete.

La parte discutibile dell’articolo è però un’altra. Non può sfuggire, infatti, che laddove si parla di conforto da portare agli ammalati viene linkato un articolo su Brittany Maynard, la giovane donna americana che ha scelto di non proseguire una vita che l’avrebbe portata a indicibili sofferenze. Il senso è abbastanza chiaro: per Antonio Curci, autore del pezzo, a Brittany mancò solo un adeguato sostegno, cosa semplicemente falsa. Non può esserci nessun’altra ragione alla base della scelta di citarla indirettamente, attraverso un link. E non può esserci commento adeguato quanto l’astensione da qualunque commento, in casi come questo.

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

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