• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > L’economia morale delle piccole imprese

L’economia morale delle piccole imprese

Giulio Sapelli insegna Economia politica e Storia economica all’Università di Milano, e considera le piccole imprese molto simili alle piccole comunità e diverse dalle solite società commerciali.

Nel libro "Elogio della piccola impresa" (il Mulino, 2013), Sapelli sviluppo una rapida panoramica dei punti di forza e di debolezza della piccola e media imprenditoria italiana, che è una forma di organizzazione economica “complementare e sinergica” rispetto alle grandi imprese.

Prima di fare qualsiasi considerazione bisogna analizzare qualche dato: le micro imprese italiane (quelle con meno di dieci dipendenti), sono “il 94,5 per cento del totale, contro il 92 per cento della media europea. Le PMI, quindi, garantiscono l’81,4 per cento dell’occupazione, molto di più rispetto la media dei paesi UE, che arriva al 67 per cento. In termini di valore aggiunto, le micro imprese producono un terzo del totale nazionale, mentre in Europa il dato supera di poco il 20 per cento. Includendo anche le imprese piccole e medie, il valore aggiunto in Italia arriva al 71,3 per cento, mentre nella UE non raggiunge il 60 per cento” (p. 31).

Comunque, nonostante l’attuale crisi economica, l’esistenza delle piccole imprese falsifica la tesi della necessità della crescita continua per la sopravvivenza delle imprese: “moltissime sono le piccole imprese centenarie, soprattutto artigiane e cooperative”. Spesso e volentieri gli imprenditori italiani preferiscono mantenere il controllo, rinunciano a grossi finanziamenti e cercano di sottrarsi “con ogni mezzo al mercato dei diritti di proprietà” (la borsa). A volte la cosa si rivela molto saggia: i pescecani della finanza non possono raggiungere le acque dolci dei laghi.

In genere la piccola impresa preferisce investire nella flessibilità e nelle produzioni di alta qualità e di nicchia, per adattarsi velocemente alle congiunture dei mercati. Il piccolo imprenditore è poco scolarizzato, impara per prove ed errori e investe i capitali e i beni di famiglia. Molti imprenditori, grazie alle reti e alle nuove tecnologie, sono “in grado di aumentare a livelli inusitati la produzione per stabilimento, con una riduzione tanto della manodopera quanto della dimensione” aziendale.

Però molte micro imprese gestiscono affari al limite della sopravvivenza economica e in alcuni casi un imprenditore può guadagnare meno di un operaio. In effetti “il carattere della piccola impresa è pre-economico, sociale, antropologico. Più che attore economico, essa è testimone vivente del passato agrario [in particolare la mezzadria] e della mobilità sociale ascendente delle classi non agiate della società. Si fonda sulla persona e quindi sulla fiducia, sulla inesauribile flessibilità di cui persone e famiglie sono capaci pur tra mille errori”. Però non si può continuare a lavorare in perdita per troppi mesi e l’autofinanziamento a volte può evitare il vero rinnovamento.

I burocrati bancari e governativi stanno parassitando la fiducia degli imprenditori e attraverso livelli insostenibili di tassi usurai, di commissioni vessatorie e di prelievi fiscali spropositati, hanno condannato a morte per inedia buona parte delle famiglie più laboriose e più indipendenti d’Italia.

Per evitare una brutta fine, gli imprenditori più svegli, più acculturati e meno protetti dai politici si sono già trasferiti all’estero. Per tutti gli altri forse arriverà “il momento in cui gli uomini e le donne si stancano di essere calpestati dal tallone di ferro dell’oppressione” (Martin Luther King). Del resto, “dimenticata la giustizia, cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” (sant’Agostino).

Note di inquadramento globale - Il costo del lavoro delle manifatture italiane “è più che doppio rispetto a quello del Brasile e della Turchia, è il triplo di un’impresa della Polonia, quasi sei volte quello di un’impresa della Romania e circa nove volte quello di un’impresa della Cina” (p. 92).

Anche se la tassazione del lavoro italiano è tra la più alta del mondo, “la quota di PIL destinata alla protezione dei lavoratori dalla disoccupazione è la più bassa d’Europa”: è lo 0,8 per cento del PIL, meno della metà della media europea, che è dell’1,8 per cento (p. 104). Le tasse sui carburanti, del 75 per cento, sono tasse indirette applicate soprattutto ai lavoratori (dipendenti e autonomi). Come tutte le altre tasse finiscono nel calderone “tritatutti” i tributi, usato per pagare gli interessi sul debito pubblico, che alimenta i principali parassiti finanziari italiani (Banche & Intermediari).

L’Italia vanta “il primato europeo per numero di imprenditori e di lavoratori autonomi tra i 15 e i 39 anni”, per una percentuale sul totale degli occupati del 19,6 per cento, quasi doppia rispetto al 10,3 della media europea” (p. 85). In realtà in molti casi si tratta di collaborazioni continuative che vengono trasformate in false Partite IVA, in modo da scaricare i costi dei contributi sui lavoratori.

La Germania esporta soprattutto in Europa e i poco adattabili governanti tedeschi, dopo aver messo in difficoltà finanziarie molti paesi europei, hanno verificato di poter esportare di meno. L’Italia paga interessi sul debito “tra il 4,5 e il 5 per cento, per i bond a 10 anni, rispetto all’1,35 che paga la Germania e l’1,8 per cento che pagano gli inglesi, nonostante siano messi molto peggio di noi, con un deficit di bilancio, nel 2012, pari all’8 per cento” e con famiglie e imprese molto più indebitate (E. Fazi e G. Pittella, Breve storia degli Stati Uniti d’Europa, Fazi Editore, 2013, p. 148).

I nazisti adottarono “il metodo dei Commissari, che governavano i paesi sottomessi sfruttandone le economie in favore della Germania, e precisamente estraendo reddito e risparmio senza gestirne direttamente la produzione, ma appoggiandosi a un apparato locale collaborazionista”. Nel 2003 Francia e Germania “ebbero bisogno, per sostenere le loro economie, di fare spesa a deficit oltre il plafond del 3 per cento del Pil, e l governo italiano diede il suo benestare. Ora invece che è l’Italia ad aver bisogno di fare altrettanto, Francia e Germania glielo proibiscono, per costringerla a svendere” i beni pubblici e le imprese private (Marco Della Luna, Traditori al governo?, Arianna Editrice, 2013).

I principali fattori che caratterizzano una comunità sono la solidarietà e “la volontà di capire chi è diverso” (Daniele Archibugi, Cittadini del mondo, il Saggiatore, 2011, p. 259).

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares