L’ateismo come fenomeno positivo
Gli studi sociologici (e non solo quelli) si sono sinora concentrati quasi esclusivamente sulla religione. All’incredulità è stata riservata solo un’attenzione residuale, priva di profondità. Ma qualcosa sta cambiando: sta cambiando la società, sempre più secolarizzata, ma sta cambiando anche l’approccio accademico, che comincia a fare i conti con una massa crescente di atei e agnostici. Le ricerche sul fenomeno della non credenza si moltiplicano, tanto che cominciano anche i confronti a tutto campo sul modo di intenderla.
Il numero invernale della rivista Sociology of religion ha ospitato un confronto tra l’inglese Stephen LeDrew e lo statunitense Jesse M. Smith sulle prospettive di tali studi, soffermandosi in particolare sulla costruzione di un’identità atea e sulle modalità che portano a diventare atei o attivisti atei. Secondo LeDrew anche gli atei devono essere considerati “credenti”. Ed è ritornato sull’argomento in un articolo pubblicato sul sito di Nonreligion and Secularity, la principale risorsa accademica online dedicata a questi temi.
Il sociologo contesta l’opinione, condivisa anche da Smith, che l’ateismo sia l’assenza o la negazione di una credenza, e non è quindi proficuo soffermarsi solo su questo aspetto (che comunque si basa a sua volta su delle ragioni). Secondo LeDrew, gli atei hanno anch’essi sistema di pensiero “positivi”, e i due più significativi sono a suo modo di vedere quello “scientifico” e quello “umanista”. Tali concezioni del mondo sarebbero dunque basate su “credenze”: la convinzione che la scienza è la più autorevole fonte di conoscenza e che il progresso scientifico guida quello sociale, e la convinzione che bisogna lottare per una dignitosa eguaglianza tra gli uomini, che si accompagna alla percezione che la religione impedisca la giustizia sociale.
Ma come può un non credente essere nel contempo un credente? L’errore di LeDrew, a nostro avviso, è che “credente” è termine dalle molteplici accezioni, in italiano come in inglese. Poiché quella prevalente, in entrambi i casi, è “avere una fede religiosa”, dovrebbe essere evidente che usarlo anche per i non credenti è un errore metodologico: i non credenti nutrono semmai “convinzioni”, che possono ovviamente essere anche molto forti. L’ateismo consapevole non è certo una fede. Ma ha una sua dignità, passione e complessità che non hanno nulla da invidiare alle credenze religiose.
È infatti importante comprendere che l’ateismo non è un fenomeno univoco: ciò che unisce tutti gli atei e tutti gli agnostici è in fondo una cosa sola, il non affermare l’esistenza di dio. Ma funziona poi così diversamente la fede? I credenti sono tutti uguali? A ben vedere l’unica cosa che unisce i credenti è l’affermare l’esistenza di (almeno un) dio. Per il resto, entrambi i gruppi sono estremamente diversificati al loro interno, e gli appartenenti a entrambi i gruppi hanno la loro pars construens e la loro pars destruens, più o meno sviluppata: ci sono feroci anticlericali come feroci negatori della libertà di scelta.
Resta il fatto che sono due gruppi difficilmente comparabili. Le opinioni prevalenti tra i credenti sono assai diverse da quelle prevalenti tra i non credenti. I primi si riferiscono a testi considerati sacri, i secondi prediligono i dati empirici. I primi seguono dogmi e precetti, i secondi scelgono la libertà di scelta. I primi dispongono di gerarchie di sacerdoti, i secondi preferiscono l’autonomia individuale. E ciononostante i ruoli talvolta si invertono. Bisogna essere consapevoli, come ha scritto Danièle Sallenave, che “ciò che abbiamo in comune è di essere, ognuno, differente da tutti gli altri”. Circostanza che ci potrebbe spingere a essere più rispettosi di tutti coloro che non la pensano come noi. Atteggiamento che è più facile trovare tra i non credenti che tra i credenti. Ma non definitelo una credenza.
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