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L’accordo sugli statali: vincono tutti (tranne i lavoratori)

L’intesa siglata tra governo e parti sociali concertative sul rinnovo dei contratti per gli statali si è chiusa, dopo otto ore di discussione con la soddisfazione di tutti gli attori: si tratta quindi, finalmente, di un accordo positivo? Proviamo ad analizzarlo nel merito.

1.  I tempi. Sette anni di attesa trascorsi senza un incontro, uno sciopero, una presa di parola: nulla sembrava far cambiare idea al Governo, nemmeno la sentenza 178/15 della Corte Costituzionale che, il 24 giugno del 2015, sanciva l'illegittimità del blocco dei contratti. Abbiamo atteso quasi altri 18 mesi prima che, magicamente, Governo e sindacati si incontrassero. Quando? Tre giorni prima del referendum costituzionale col quale Renzi si gioca il futuro. Coincidenze? Certamente!

2.  Il rinnovo contrattuale: non c’è, semplicemente. Si tratta solo di un’intesa, alla quale deve seguire un documento d’indirizzo del Governo, sulla cui base l’ARAN provvederà ad iniziare le trattative per i rinnovi. Insomma, al momento parliamo di fuffa, ma facciamo finta che sia tutto già firmato e attivo, e andiamo avanti!

3.  I soldi. 85 euro medi mensili era la proposta della Madia; 85 euro minimi mensili, ruggivano in risposta i sindacati. Dopo 8 ore di discussione, finalmente arriva il compromesso: “incrementi non inferiori a 85 euro mensili medi”. Ma, se la matematica non è un’opinione, l’espressione equivale esattamente all’iniziale proposta governativa (85 euro mensili medi non è diverso da “almeno” 85 euro mensili medi): questo significa che qualcuno prenderà di più, molti prenderanno di meno, nessuno sa, ad oggi, di quanto aumenterà il proprio stipendio...nel 2018 (con tanti complimenti alla Triplice e alle loro competenze linguistico-matematiche)! Eh già, perché il presupposto dell’intesa è stata la proroga della vigenza dell’attuale contratto per ulteriori tre anni (2016/2018). Insomma, quando (se...) il contratto sarà firmato, i lavoratori riceveranno, mediamente, 40-50 euro netti in più in busta paga dopo soli 9 anni di attesa! Per comprendere l’insignificanza dell’incremento facciamo un rapido calcolo, di quelli della serva: dal 2009 al 2016 i prezzi sono aumentati (fonte ISTAT) del 9,3%; su uno stipendio medio netto di 1400 euro questa percentuale si traduce in circa 130 euro. Questa sarebbe dovuta essere la cifra netta per recuperare solamente l’inflazione; con l’accordo, invece, sarà sancita una perdita di potere d’acquisto dei salari pari a circa il 5,7%!

4.  Le coperture. mancano, al momento, all’appello circa 1,2 miliardi (stima del Sole24Ore), che dovrebbero essere reperiti con la legge di bilancio del 2018. Vogliamo essere ottimisti, ma visti i problemi riscontrati per avere il placet della Commissione Europea già per quest’anno, non sbagliamo a nutrire quantomeno dei dubbi sulla facilità di reperimento di questa copertura. E se la trovano, che cosa taglieranno?

5.  Lo scherzo. Con gli aumenti a regime, una platea di circa 800.000 lavoratori, di cui 250.000 solo nella scuola, perderebbe il diritto ad avere i famosi 80 euro (il cosiddetto "bonur Renzi"), perché il loro reddito annuale supererebbe il limite massimo previsto dalla legge per usufruire del bonus.. Per evitare questo rischio ci vogliono, secondo il governo, altri 140 milioni di euro; secondo i sindacati il doppio. Ma attenzione, perché la soluzione esiste già e sta nel nuovo contratto dei metalmeccanici: i soldi eventualmente persi vengono “recuperati” con prestazioni di welfare integrativo. Già, ma cos’è?

6.  Il welfare aziendale. L’ultima trovata di padroni e sindacati corporativi. Meno aumenti in cambio di una serie di prestazioni in campo sanitario (a fronte di un sistema pubblico sempre più allo sbando) che a volte restano inutilizzate. Risultato: sindacati contenti perché entrano nei cda dei fondi assicurativi preposti all’erogazione dei servizi; padroni contenti perché non pagano gli aumenti; lavoratori senza soldi e col concreto rischio di trovarsi – per ragioni di salute – a dipendere da servizi indissolubilmente legati al mantenimento del posto di lavoro. Ti licenziano? Niente più occhiali e visite specialistiche per te e la tua famiglia!

7.  Produttività e formazione. Si tratta di altri due cavalli di battaglia dei più recenti rinnovi. La misura della produttività è talmente arbitraria che già nell’intesa si traduce, concretamente, nell’obiettivo dell’aumento dei tassi medi di presenza: produttività, quindi, è uguale a lavorare di più. La formazione, invece, diventa sempre più centrale nei rinnovi contrattuali: obbligatoria, decisa dal padrone, verificabile. La legge 107 sulla scuola, ad esempio, impone 40 ore annue di formazione obbligatoria, ad oggi non ancora tradotta in nessun contratto e quindi non applicata. A regime, per gli insegnanti le ore di attività extradidattiche, tra consigli, organi collegiali e formazione, ammonteranno ad almeno 120, senza alcun riconoscimento economico.

8.  Prevalenza della contrattazione sulla legge. Dopo gli interventi brunettiani che avevano ribadito fortemente il primato della legge, nell’intesa le parti concordano sull’importanza di ridare peso alla contrattazione, anche e soprattutto per la determinazione dei criteri di erogazione del salario accessorio, dei bonus e dei premi. I sindacati, in cambio del silenzio e della connivenza di questi anni, portano a casa un grande risultato (per loro): tornare a contare qualcosa, come cogestori di soldi, clientele e potere. Complimenti!

Insomma, quest’intesa ci sembra una colossale presa in giro, dove di serio c’è solo la tempistica: come avevamo già scritto nei giorni scorsi, CGIL, CISL e UIL giocano, in queste settimane, chiaramente a favore del SI. E nel caso della CGIL, formalmente contraria, a noi vengono in mente quei giocatori che all’improvviso segnano nella propria porta, e a te rimane il sospetto che si siano venduti la partita...

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